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La mattina appresso andai a vedere se essi fossero partiti. Erano saliti su una barca prima delle cinque. Uno straordinario esempio del vuoto lasciato dai partenti m’era dato dal miserabile alberghetto dove non li avevo visti che una sola volta: sembrava, ora che se n’erano andati, veramente triste e deserto.

Nel pomeriggio del giorno dopo, io e la mia vecchia domestica ci recammo a Gravesend. Trovammo nel fiume il bastimento, circondato da una folla di barche. Soffiava un vento favorevole; il segnale della partenza fluttuava in vetta all’albero. Noleggiai subito una barca, e ci dirigemmo a bordo a traverso il piccolo vortice di confusione di cui il bastimento formava il centro.

Il pescatore Peggotty ci aspettava sul ponte. Mi disse che il signor Micawber era stato arrestato di nuovo (e per l’ultima volta) a richiesta di Heep, e che, in conformità delle mie raccomandazioni, aveva pagato lui l’am-montare del debito. Gli restituii subito la somma anticipata. Ci condusse poi nel traponte, e colà, il mio timore che gli fosse giunta qualche voce di ciò che era accaduto 1442

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fu dissipato dal signor Micawber, il quale uscì dall’ombra, gli prese il braccio con aria d’amichevole protezione, e mi disse che dall’antivigilia s’era separato da lui appena per qualche istante.

Per me quello era uno spettacolo così strano, e lo spazio così stretto e buio, che in principio appena distinguevo qualcosa; ma gradatamente, come gli occhi s’av-vezzarono alla tenebra, tutto si rischiarò, e mi parve di stare in un quadro di Van Ostade. Fra le travi, i carichi, le catene del bastimento, le cucce degli emigranti, e le casse, i fagotti, e le botti, e i mucchi dei bagagli di ogni genere – illuminati qua e là da lanterne sospese, e più lungi dal raggio giallo d’uno sfiatatoio o d’un finestrino

– s’affollavano gruppi di persone, che stringevano nuove amicizie, si abbracciavano per dirsi addio, parlavano, ridevano, piangevano, mangiavano e bevevano; alcune già stabilite nel possesso del loro cantuccio di spazio, circondate dai loro arredi e dai bambini già accomodati su minuscole scranne o sedioline; altre alla ricerca disperata d’un angolo ove riposarsi e sconsolatamente erranti. Dai bambini che non avevano vissuto che una o due settimane, a vecchi curvi e a vecchie che sembravano non dovessero vivere che una o due settimane ancora; e dai robusti bifolchi che avevano appiccicata alle scarpe un po’ di terra natia, ai fabbri che portavano sulla pelle le impronte del fumo e della fuliggine d’Inghilterra, si stipavano nell’angusto spazio del traponte rappre-sentanti di tutte le età e di tutte le professioni.

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Dando un’occhiata in giro, mi parve di veder seduta, accanto a un finestrino aperto, con uno dei bambini di Micawber accanto, una donna che aveva l’aria di Emilia.

La notai, perché in quel momento era baciata da un’altra, che poi si dileguò tranquillamente nella confusione, dandomi una vaga impressione di... Agnese! Ma nella ridda dei miei pensieri, e nell’alternarsi di tante sensazioni, la persi di vista di nuovo; e seppi soltanto che era già l’ora d’andarsene, e si avvertivano tutti i visitatori di lasciare il bastimento; che la mia domestica piangeva su una cassa accanto a me; e che la signora Gummidge, aiutata da una giovane vestita di nero che mi voltava le spalle, ordinava i bagagli del pescatore Peggotty.

– Avete qualche altra parola da dirmi, signorino Davy?

– egli mi disse. – Avete dimenticato qualche cosa?

– Una – dissi. – Marta!

Egli toccò sulla spalla la giovane che ho già menzionata, e Marta mi stette di fronte.

– Dio vi benedica, uomo generoso! – esclamai. – La conducete con voi!

Ella rispose per lui, con uno scoppio di pianto Mi fu impossibile di dire una parola in quel momento; non potei che stringergli forte forte la mano. Se mai ho stimato e onorato qualcuno al mondo, quegli è stato il pescatore Peggotty.

Gli estranei lasciavano rapidamente il bastimento.

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Mi rimaneva ancora una gran prova da compiere. Gli riferii ciò che m’aveva incaricato di dirgli al momento della partenza l’anima nobile che se n’era andata. Egli ne fu profondamente commosso: ma quando, a sua volta, mi incaricò di molti saluti affettuosi per colui che non sentiva più, io fui più commosso di lui.

Era il momento di separarci. Lo abbracciai presi il braccio della mia vecchia domestica piangente, e m’allontanai in fretta. Sul ponte, mi congedai dalla povera signora Micawber, che vegliava inquieta sulla sua famiglia anche allora; e l’ultima cosa che mi disse fu che lei non avrebbe mai abbandonato il signor Micawber.

Ridiscendemmo nella nostra barca, e poco lungi ci fermammo per vedere il bastimento muoversi. Era un tramonto calmo e radioso. La nave si dondolava fra noi e la luce rosea, e su quello sfondo lucente si delineava ogni corda, e ogni particolare dell’attrezzatura. Non avevo mai assistito a uno spettacolo così bello, così melanconico e così pieno di speranza: il bastimento stava come in gloria sull’acqua agitata, coi parapetti gremiti di passeggeri, tutti a testa nuda e silenziosi.

Silenziosi per un istante solo. Come le vele si scossero al vento, e il bastimento cominciò a muoversi, ecco da tutte le barche levarsi tra fragorosi evviva, che furono ri-petuti a bordo, e rimandati, ed echeggiati, e riecheggiati.

Mi sobbalzò il cuore, quando udii le grida e vidi l’on-deggiare dei cappelli e dei fazzoletti... e fu allora che la 1445

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scorsi.

Fu allora che la scorsi, a fianco dello zio, tutta tremante contro la sua spalla. Egli ci segnava a dito: e anche lei ci scorse, e mi fece un cenno di saluto. Sì, Emilia, bel fiore abbattuto, aggrappati a lui con tutta la fede del tuo cuore desolato; perch’egli s’è aggrappato a te con tutta la forza del suo grande amore.

Circonfusi di luce rosea, e ritti sul ponte insieme, lei appoggiata a lui come a un forte sostegno, solennemente si dileguarono. La notte era discesa sulle colline di Kent, quando approdammo... e aveva avvolto anche me delle sue tenebre.

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LVIII.

ASSENZA

Fu una lunga e triste notte che si raccolse su me, popola-ta dagli spettri di molte speranze, di molte care memorie, di molti errori, di molte sterili melanconie e rimpianti.

Andai via d’Inghilterra; non sapendo, neanche allora, come fosse rude il colpo che dovevo sopportare. Lasciai quanti mi erano cari, e partii; e credetti d’averlo evitato e che tutto fosse finito. Come chi su un campo di battaglia riceve una ferita mortale e s’accorge a pena d’esser toccato, così io, trovatomi solo col mio cuore indisciplinato, non avevo idea della piaga che doveva farlo dolo-rare. Non me n’accorsi subito, ma a poco a poco, fibra per fibra. Il sentimento di desolazione che mi accompagnava alla partenza, s’andò approfondendo ed allargando ora per ora. Sulle prime fu un grave senso di solitudine e di smarrimento nel quale non riuscivo a distinguere gran che. Per gradi impercettibili, divenne una disperata consapevolezza di tutto ciò che avevo perduto... amore, amicizia, speranza; di tutto ciò che era stato infranto... la mia prima fede, il mio primo affetto, l’intero fantastico edificio della mia vita; di tutto ciò che rimaneva... un 1447

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deserto di rovine, che mi s’estendeva vasto intorno, ininterrotto, fino al buio orizzonte.

Se il mio dolore era egoistico, non lo sapevo. Piangevo su mia moglie-bimba, divelta così giovane dal suo stelo in fiore. Piangevo colui che avrebbe conquistato l’amore e l’ammirazione di migliaia, come aveva conquistato il mio amore e la mia ammirazione lungo tempo prima.

Piangevo il cuore straziato che aveva trovato la pace nel mare burrascoso; e le reliquie sparse della modesta dimora, dove io bambino avevo udito soffiare il vento della notte.

Dall’abisso di tristezza, in cui ero caduto, non vedevo più alcuna speranza di salvezza. Erravo di luogo in luogo, portando da per tutto il mio carico di tristezza. Ne sentivo tutto il peso, e andando curvo, mi dicevo in cuore che non ne sarei stato mai alleggerito.

In quei momenti di scoraggiamento, credevo di dover morire. A volte pensavo che mi sarebbe piaciuto di morire in patria, e veramente tornavo indietro, per raggiungere il suolo d’Inghilterra. Altre volte continuavo ad errare di città in città, cercando non so che, e tentando di fuggire non so che.

Mi sarebbe impossibile descrivere a una a una tutte le fasi della mia ambascia. Certi sogni non si narrano che molto vagamente e imperfettamente; e se mi sforzo di concentrarmi su questo periodo della mia vita, mi sem-1448

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bra di voler rievocare un sogno dello stesso genere. Mi riveggo errare fra le nuove visioni delle città straniere, fra palazzi, cattedrali, templi, quadri, castelli, tombe, strade fantastiche – le antiche dimore della storia e della fantasia – come in un sogno; e porto da per tutto la mia pesante soma, e m’accorgo appena degli oggetti che mi sfilano innanzi. Ignara di tutto, ma colma d’ambascia, era la notte che avviluppava il mio cuore indisciplinato.

Ma usciamone – come finalmente io feci, grazie al Cielo! – e fuor di quel lungo, triste, angoscioso sogno, guardiamo all’alba.

Per molti mesi viaggiai con quella nube eternamente opaca sullo spirito. Per alcune oscure ragioni che avevo di non tornare in patria – ragioni che allora invano lotta-vano in me per trovare un’espressione più distinta –

continuai a peregrinare. Talvolta ero passato inquieto di città in città senza fermarmi mai; talvolta ero rimasto a lungo in un punto. Ma in nessun luogo mai trovavo un proposito, un pensiero che mi sostenesse.

Ero in Isvizzera, ed ero arrivato dall’Italia, per uno dei grandi valichi delle Alpi, e d’allora avevo vagato con una guida per i sentieri delle montagne. Non so se quelle spaventose solitudini avessero parlato al mio cuore.

Avevo, in quelle formidabili altezze e in quei precipizi, in quei torrenti muggenti, e in quei deserti di ghiaccio e di neve, trovato il sublime e il meraviglioso; ma pure non avevo raccolto null’altro.

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Are sens