trovammo un altro tesoro, che era una donna piacevolissima, ma che generalmente s’ostinava a cadere, tutte le volte che aveva in mano il vassoio, salendo o scendendo per le scale della cucina, e a crollare in un mucchio nel salotto, come in un bagno, con le tazze e la teiera. Gli stermini commessi da quella sciagurata resero necessario il suo congedo, che fu seguito (con intermezzi della domestica provvisoria Kidgerbury) da una lunga schiera di Incapaci, la quale terminò con una ragazza di nobile aspetto, che si recò alla fiera di Greenwich col cappello di Dora. Dopo la quale, non ricordo che una media eguaglianza di insuccessi.
Pareva che quanti avessero qualche cosa da fare con noi, tirassero a ingannarci. Il nostro ingresso in una bottega era il segnale dell’apparizione immediata dei fondi guasti di magazzino. Se compravamo un’aragosta era piena d’acqua. Tutta la carne che ci portavano a casa era co-riacea, e il nostro pane era quasi senza crosta. In cerca del principio che governa la cottura a punto d’un arrosto, consultai io stesso il Libro di cucina, e vi appresi che bisognava concedere un quarto d’ora a ogni libbra di carne, e un quarto di più per il tutto. Ma per una stra-1141
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na fatalità, quel principio non reggeva mai, e non ci riusciva di trovare il giusto mezzo fra la carne sanguino-lenta e la carne calcinata.
Avevo ragione di credere che tutti quei disastri ci costas-sero molto più che se avessimo avuto da registrare una serie di trionfi. Mi sembrava, consultando i conti dei bottegai, che avremmo potuto pavimentare il pianterreno con mattonelle di burro, in tanta profusione ne con-sumavamo. Non so se le imposte in quel torno di tempo mostrassero un aumento di domanda nella voce del pepe; ma se il nostro consumo non ebbe influenza sul mercato, bisogna conchiudere che parecchie famiglie ne sospendessero l’uso. E il più meraviglioso si era che non ce n’era mai un acino in casa.
Quanto alla lavandaia, che andava a mettere in pegno la nostra biancheria, e si presentava in uno stato d’ubbriachezza penitente a chiederci scusa, la suppongo una circostanza che può essere capitata parecchie volte a chiunque. Come pure l’incendio del camino, la pompa della parrocchia, e la falsa testimonianza dello scaccino.
Ma debbo conchiudere che fummo veramente disgraziati nel prendere in nostro servizio una domestica che aveva una grande passione per i liquori, e che arrotondò il nostro conto corrente con la fornitura della birra presso il birraio con delle aggiunte inesplicabili come «Un quarto di bottiglia di rum (signora C.)»; «Mezzo quarto di ginepro (signora C.)»; «Bottiglia di rum e acquavite 1142
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(signora C.)». Le parentesi si riferivano sempre a Dora, che aveva dovuto assorbire, a quanto ci fu spiegato dopo, l’intera quantità di tutti quei liquidi incendiari.
Una delle nostre prime imprese di genere casalingo fu un desinaretto per Traddles, che avevo incontrato un giorno in città, invitandolo a venir fuori con me in quel pomeriggio. Egli accettò subito, e io scrissi a Dora, dicendole che l’avrei condotto a casa. Faceva bel tempo, e per strada il tema della nostra conversazione fu la mia felicità domestica. Traddles ne era perfettamente convinto; e mi diceva che, immaginando d’avere una casa come la mia e Sofia che l’attendesse a desinare, non riusciva a pensare che potesse mancar nulla alla sua completa beatitudine.
Io non avrei potuto desiderare una più leggiadra mogliettina all’estremità opposta della tavola; ma avrei, certo, potuto desiderare, quando vi prendemmo posto, un po’ più di spazio. Non so perché, ma sebbene fossimo soltanto in due, non c’era mai spazio a sufficienza, e pure ce ne avevamo sempre a dovizia per perdere qualunque oggetto. Forse era perché nulla aveva un luogo assegnato, eccetto la pagoda di Jip che invariabilmente bloccava il passaggio principale. In quell’occasione, Traddles era così inceppato fra la pagoda e la custodia della chitarra, il cavalletto di Dora e il mio scrittoio, che ebbi dei gravi dubbi che potesse riuscire in qualche modo a maneggiare il coltello e la forchetta; ma egli 1143
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protestò col suo invariabile buon umore: «Ho un mare di spazio, Copperfield; ti giuro, un mare di spazio!».
Vera un’altra cosa che avrei potuto desiderare; che Jip, cioè, non fosse stato incoraggiato a passeggiare sulla tovaglia durante il desinare. Cominciai a pensare che in quel momento non fosse legittima la sua stessa presenza, anche se non avesse avuto l’abitudine di mettere le zampe nel sale o nella scodella del burro fuso. In quell’occasione esso credé d’esser stato chiamato espressamente per dar la caccia a Traddles; e abbaiava al mio vecchio amico e faceva degli assalti sul suo piatto, con tanta indomabile pertinacia, da formar lui solo l’unico soggetto della conversazione.
Ma conoscendo il cuor tenero di Dora, e come fosse sensibile sul punto del suo favorito, che non si poteva trattar leggermente, non feci alcuna obbiezione. Per la stessa ragione non feci alcuna allusione alla scherma ch’esso faceva coi piatti sul pavimento; né alla cattiva disposizione delle posate, delle oliere e delle saliere, messe in gruppo di cinque o sei, alla rinfusa; né all’ulte-riore blocco di Traddles per mezzo dei piatti vaganti e delle bottiglie. Ma non potevo fare a meno dal pensare, mentre stavo in contemplazione del cosciotto di castrato allesso, che mi stava dinanzi, prima di tagliarlo, come avvenisse che i cosciotti che compravamo noi fossero sempre di forma così strana, e che il nostro macellaio avesse per principio di fare incetta di tutte le pecore de-1144
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formi che venivano al mondo; ma non feci parte a nessuno delle mie riflessioni.
– Amor mio – dissi a Dora – che hai in quel piatto?
Non sapevo spiegarmi perché Dora stesse da alcuni istanti facendo delle piccole smorfie con le labbra, come se volesse far l’atto di baciarmi.
– Ostriche, caro – disse timidamente Dora.
– Ci hai pensato tu? – dissi io, in estasi.
– S... sì, Doady – disse Dora.
– Che bella idea! – esclamai, mettendo giù il trin-ciante e la forchetta. – Traddles va matto per le ostriche.
– S... sì, Doady – disse Dora – e ne ho comprate un bel bariletto, e l’uomo mi ha detto che erano ottime. Ma io... io temo che abbiano qualche cosa. Non mi sembrano buone. – Qui Dora scosse il capo, e dei diamanti le scintillarono negli occhi.
– Sono aperte soltanto a metà – dissi. – Togli il guscio di sopra, amor mio.
– Ma non si stacca – disse Dora, facendo forza, con l’aria più angosciata.
– Sai, Copperfield – disse Traddles, esaminando lietamente il piatto – io credo sia perché... le ostriche sono belle, ma credo sia perché... non sono mai state aperte.
Non erano mai state aperte; e non avevamo coltelli 1145
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adatti; e non avremmo saputo usarli, avendoli; così guardammo le ostriche e mangiammo il castrato. Per lo meno ne mangiammo la porzione che era cotta, accom-pagnandola coi capperi. Se glielo avessi permesso, son convinto che Traddles si sarebbe comportato alla guisa d’un selvaggio, mangiandosi tutto un piatto di carne cruda, per convincermi che il pasto era di sua perfetta soddisfazione; ma non volli che si immolasse sull’altare dell’amicizia; e ci gettammo invece su un pezzo di lardo: c’era, fortunatamente, un po’ di lardo nella credenza.
La mia povera mogliettina fu così desolata al pensiero che io fossi seccato, e così vibrante di gioia quando trovò il suo sospetto infondato, che il mio segreto disappunto svanì subito, e passammo una sera felice. Dora se ne stette accanto a me col braccio sulla mia sedia, cogliendo tutte le occasioni, mentre Traddles discuteva con me sulla qualità del vino, per bisbigliarmi all’orecchio che ero stato così buono da non borbottare... Dopo ella ci fece il tè; ed era bello vederla. Pareva che si af-faccendasse a fare il tè alla bambola; e io non feci il difficile sulla qualità della bevanda. Poi io e Traddles gio-cammo un paio di partite a carte, mentre Dora cantava accompagnandosi con la chitarra, e mi parve che il nostro fidanzamento e il nostro matrimonio fossero ancora un bel sogno, e come se la sera in cui la prima volta avevo ascoltato la voce di lei non fosse ancora finita.
Andato via Traddles, io, dopo averlo accompagnato 1146
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alla porta, tornai nel salotto. Mia moglie piantò la sua sedia accanto alla mia, e mi si sedette a fianco.
– Son tanto spiacente – disse. – Perché non cerchi d’insegnarmi, Doady?
– Debbo prima imparare io – dissi. – Io non ne so più di te, cara.
– Ah! Ma tu puoi imparare – ella rispose: – hai tanta intelligenza, tu!
– Non dire delle sciocchezze, tesoro.
– Io vorrei – ripigliò mia moglie, dopo un lungo silenzio – essere stata in campagna almeno un anno con Agnese.
Stava con le mani sulla mia spalla e col mento sulle mani, fissando con gli occhi azzurri tranquillamente i miei.