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– Perché? – chiesi.

– Perché ella avrebbe potuto correggermi, e credo che da lei avrei imparato molto.

– Col tempo s’arriva a tutto, cara. Agnese per molti anni ha dovuto aver cura del padre, come sai. Anche quand’era bambina, era la stessa Agnese che noi conosciamo.

– Mi chiamerai con un nome che io ti dirò? – chiese Dora senza muoversi.

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– Quale? – dissi con un sorriso.

– È un nome sciocco – disse scotendo per un istante i riccioli. – Moglie-bimba.

Domandai ridendo a mia moglie-bimba perché voleva che io la chiamassi così. Ella rispose senza muoversi, benché cingendole col braccio la vita avessi avvicinato ancor più ai miei i suoi occhi azzurri:

– Io non intendo, sciocco che sei, che tu non mi debba chiamar più Dora. Voglio soltanto che quando pensi a me, pensi che sono tua moglie-bimba. Quando ti darò dei motivi d’inquietudine, tu dovrai pensare: «Non è che mia moglie-bimba». Quando non saprò accontentarti, tu dovrai dire: «Lo sapevo da tanto tempo che ella sarebbe stata una moglie-bimba». Quando non sarò per te tutto ciò che vorrei essere, e ciò che non sarò forse mai, dovrai dire: «E pure quella sciocca di mia moglie-bimba mi vuol bene!». Perché davvero ti voglio bene.

Non le avevo risposto seriamente, non avendo affatto sospettato, allora, ch’ella parlasse sul serio. Ma fu così felice di ciò che le risposi in tutta sincerità, che il viso le raggiò di gioia prima che le si asciugassero gli occhi.

Presto fu davvero mia moglie-bimba; e si sedette sul pavimento fuori della pagoda a sonare tutti i campanelli l’uno dopo l’altro per punire Jip della sua cattiva condotta in quella sera; ma Jip se ne stette sdraiato sulla soglia della sua nicchia, a guardar fuori con la coda del-1148

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l’occhio, risoluto per pigrizia a non sentirsene infastidito.

Quelle parole di Dora mi fecero una grande impressione. Io ora mi riporto a quel tempo; evoco l’innocente fanciulla alla quale volevo tanto bene, la supplico d’uscire ancora una volta dalle nebbie e dalle ombre del passato e di volgere su di me il suo bel viso; e posso ancora dichiarare che il suo discorsetto non mi uscì mai di mente. Forse non seppi trarne gran pro: ero giovane e inesperto ancora; ma non mi mostrai mai sordo alle sue care parole.

Poco tempo dopo, Dora mi disse che si proponeva d’essere una piccola massaia prodigiosa. E allora diede una ripulita al taccuino, temperò la matita, comprò un immenso libro di conti, con l’ago e il filo cucì accuratamente tutti i fogli del Libro di cucina staccati e lacerati da Jip, e fece un tentativo addirittura energico d’esser saggia, com’ella diceva. Ma le cifre avevano sempre l’identico vizio antico... non volevano addizionarsi. Quando aveva schierato due o tre laboriose colonne nel registro, Jip faceva una passeggiatina sulla pagina, agitando la coda, e scarabocchiava tutto. E poi il dito medio della sua manina destra s’inzuppava d’inchiostro fino all’os-so, per così dire: decisamente, credo, che fosse il solo risultato positivo visibile.

A volte, la sera, quand’ero in casa e al lavoro – giacché scrivevo molto allora, e cominciavo in certo qual modo 1149

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ad avere una certa nomea di scrittore – deponevo la penna e osservavo mia moglie-bimba che si provava ad esser saggia. Per prima cosa, pigliava il gigantesco Libro dei conti, e lo metteva sul tavolo con un profondo sospiro. Poi l’apriva al punto reso leggibile da Jip la sera innanzi, e chiamava Jip per fargli contemplare i suoi misfatti. Ne risultava un diversivo a vantaggio di Jip, e a suo svantaggio, un po’ di inchiostratura al muso, per pu-nizione, forse. Poi ordinava a Jip di coricarsi sul tavolo, all’istante, «come un leone» – che era uno dei suoi giuochi, benché non si possa dire che l’imitazione fosse molto felice – e se esso era in umore di ubbidire, ubbidiva.

Poi ella riprendeva la penna, e cominciava a scrivere, e vi trovava un capello. Poi prendeva un’altra penna, e cominciava a scrivere, e trovava che faceva degli sgorbi.

Poi prendeva un’altra penna, e cominciava a scrivere, e diceva sottovoce: «Oh, che scricchiolìo! Disturberà Doady!». E poi rinunziava a scrivere come a un’impresa impossibile, e metteva da parte il Libro dei conti, dopo aver fatto con esso l’atto di volere schiacciare il leone.

Oppure, se era in una condizione di spirito grave e posata, si metteva davanti il taccuino e un panierino di fattu-re e d’altri documenti, che avevano piuttosto l’aria di cartucce da arricciare i capelli che di liste e di conti, e si sforzava di trame qualche risultato. Dopo averli rigorosamente paragonati l’un con l’altro, avere scritto qualche riga sul taccuino, averla cancellata, aver contato e ricontato parecchie volte tutte le dita della sinistra da un 1150

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lato e dall’altro, si mostrava così infastidita e smarrita, aveva tanta tristezza in viso, che mi faceva pena vederlo oscurato da una nube – e per cagion mia! – e me le avvicinavo pianamente e le dicevo:

– Che hai, Dora? Dora levava gli occhi disperata e rispondeva:

– Non vogliono andar bene. Mi fanno tanto male alla testa. E non vogliono far nulla di ciò che desidero.

Allora dicevo:

– Proviamo insieme. Guarda, Dora.

E cominciavo una dimostrazione pratica, alla quale Dora prestava la più profonda attenzione, per la durata, forse, di cinque interi minuti; e poi cominciava a sentirsi orribilmente stanca, e alleggeriva l’argomento arric-ciandomi i capelli, o ripiegandomi il collo della camicia per vederne l’effetto sul mio viso. Se tacitamente frena-vo la sua giocondità continuando la mia dimostrazione, ella mi faceva una faccia così sgomenta e desolata, e gradatamente diventava così sconvolta, che il ricordo della sua gaiezza al tempo che i miei passi s’erano smarriti sulla sua via, e il sentimento ch’ella era mia moglie-bimba, avevano su di me il potere d’un rimprovero, e deponevo la penna dicendo a Dora di prendere la chitarra.

Io avevo molto da fare ed ero in preda a molti affanni, ma per la stessa ragione glieli tenevo celati. Son lungi 1151

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dal ritenere, ora, che facessi bene a non rivelarglieli, ma li nascondevo per il bene che volevo a mia moglie-bimba. Mi guardo in cuore, e ne affido i segreti senza alcuna riserva a questa carta. So che sentivo la mancanza di qualche cosa, ma non così da amareggiarmi la vita.

Quando passeggiavo solo nei giorni di bel tempo, e pensavo ai giorni d’estate in cui l’aria sembrava piena del mio giovine amore, avvertivo la mancanza di qualche cosa nell’incarnazione dei miei sogni; ma pensavo che altro non fosse che un’ombra attenuata della radiosa gloria del passato che nulla avrebbe potuto riversare sul presente. Talvolta sentivo, per un poco, che mi sarebbe piaciuto avere in mia moglie un consiglio più sicuro, una maggiore ragionevolezza e maggiore fermezza di carattere, per esserne sostenuto e aiutato; che ella fosse dotata del potere di colmare le lacune che in qualche parte sentivo in me; ma comprendevo che una tale felicità non esiste in terra, che non doveva e non poteva esistere.

Ero un marito quasi ragazzo . Non avevo avuto nella vita altre lezioni che gli affanni e i dolori registrati in questi fogli. Se facevo male, e forse mi accadeva spesso, era per un malinteso e per mancanza d’esperienza. Scrivo la pura verità. Non mi gioverebbe cercar d’attenuar-la.

Così fu che m’addossai io le cure e gli affanni della nostra vita, senz’altri che li dividesse. Vivevamo presso a 1152

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poco come prima, nello stesso scompiglio domestico; ma io mi c’ero abituato, ed ero contento di veder Dora quasi sempre serena. Era lieta e gioiosa nei suoi vezzi infantili, mi voleva molto bene e si divertiva come una bambina.

Quando le discussioni alla Camera erano pesanti – parlo della lunghezza, non della qualità, ché sotto questo rapporto non erano mai diverse – e rientravo a casa tardi, Dora non si frenava più, sentendo i miei passi, ma si precipitava per gli scalini per venirmi incontro. Quando la professione conquistata con tanta fatica mi lasciava la sera libera, e potevo scrivere in casa, ella veniva a sedersi cheta accanto a me, anche se era molto tardi, e se ne stava così silenziosa, che spesso la credevo addormentata. Ma generalmente, quando levavo la testa, vedevo i suoi occhi azzurri fissarmi con l’attenzione tranquilla di cui ho già parlato.

– Oh, come devi essere stanco! – disse Dora una sera, nel momento che chiudevo lo scrittoio.

– E come devi essere stanca tu! – dissi io. – Questo è più esatto. Un’altra volta devi andare a letto, mia cara. È

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