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– Potete preparare un po’ di colazione a questo signorino, per favore? – disse l’insegnante di Salem House.

– Se posso... – disse la vecchia. – Sì, che posso.

– Come sta oggi la signora Fibbitson? – disse l’insegnante, volgendo lo sguardo a un’altra vecchia in un seggiolone accanto al fuoco, la quale formava un tal fagotto di panni, che anche ora non so come non fossi andato per errore a sedermele addosso.

– Ah, non si sente bene – disse la prima vecchia. – È in uno dei suoi brutti giorni. Se per disgrazia oggi dovesse spegnersi il fuoco, credo veramente che si spegnerebbe anche lei, e non si ravviverebbe più.

Giacché essi si misero a guardarla, mi misi a guardarla anch’io. Sebbene il giorno fosse caldo, sembrava ch’ella non pensasse ad altro che al fuoco. Sospettai che fosse gelosa perfino della casseruola; e ho ragione di credere che la guardasse di malocchio perché mi faceva fervidamente il servigio di scaldarmi l’uovo e di cuocermi il 137

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lardo; tanto vero, che durante quelle preparazioni culi-narie, in un momento che nessuno l’osservava, la vidi, con mia gran meraviglia, minacciarmi col pugno. Entrava il sole per il finestrino, ma ella sedeva volgendogli la schiena, riparando il fuoco come se lo stesse amorosa-mente a covare per tenerlo caldo, invece di esserne scaldata, e fissandolo con sguardi di diffidenza. Finita la preparazione della mia colazione, la liberazione del fuoco le diede tanta gioia, che si mise a ridere forte e in verità non molto melodiosamente.

Sedetti innanzi al pane, all’uovo e alla fetta di lardo, con una scodella di latte accanto, e feci una squisitissi-ma colazione. Mentre ancora l’assaporavo con gioia, la vecchia della casa disse all’insegnante:

– Avete portato il flauto?

– Sì – egli rispose.

– Sonate un poco – disse carezzevolmente la vecchia

– sonate.

L’insegnante, allora, portò la mano sotto la falda dell’abito, e ne trasse il flauto in tre pezzi, li avvitò, e si mise immediatamente a sonare. La mia impressione, dopo tanti anni di considerazione, è questa: che al mondo non vi fu mai alcuno che sonasse peggio. Cacciava le più orribili note prodotte mai con qualunque mezzo, naturale o artificiale. Non so che sonate fossero – se pure eran sonate, di che dubito – ma l’effetto di quel concerto su 138

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di me fu, prima, di farmi pensare a tutte le mie disgrazie in modo che a pena potevo frenar le lagrime; poi, di togliermi l’appetito; e, finalmente, di farmi così sonnac-chioso, che non mi riusciva di tener gli occhi aperti. Mi si cominciano a chiudere di nuovo, e comincio a chinar la testa, al ricordo. Ancora una volta la stanzina, con la credenza aperta nell’angolo, con le sedie a schienale ret-tangolare, con la scaletta ripida che conduceva alla stanza di sopra, e le tre penne di pavone spiegate sulla cappa del camino – ricordo che mi domandai entrando che avrebbe detto il pavone se avesse saputo dove sarebbe andato a finire lo splendore della sua veste – si dilegua al mio sguardo, e io chino la testa, e m’addormento. Il flauto non si sente più, si sente invece il rumore della diligenza, e sono ancora in viaggio. La diligenza sobbalza, mi sveglio con un salto, e ritorna il flauto, e ritorna l’insegnante di Salem House che, seduto con le gambe incrociate, malinconicamente suona, mentre la vecchia di quella casa guarda incantata. Anche lei si dilegua, e lui si dilegua, e tutto si dilegua, e non v’è più flauto, né insegnante, né Salem House, né Davide Copperfield, né altro di diverso da un sonno profondo.

Mi parve di sognare che la vecchia della casa a un tratto si fosse avvicinata, spirante d’estetica ammirazione, al lugubre sonatore di flauto, e appoggiandosi alla sedia, gli avesse dato un affettuoso abbraccio, che lo aveva interrotto per un istante. Ero fra il sonno e la veglia, o nel momento che segue quella fase media; perché quando 139

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egli si rimise a sonare – l’interruzione era un fatto reale

– vidi e udii la stessa vecchia domandare alla signora Fibbitson se non fosse delizioso (alludendo al suono del flauto), e la signora Fibbitson rispondere: «Ah, sì, sì!» e accennare al fuoco, dandogli, credo, l’onore di tutta quella musica.

Quando gli parve che avessi dormito abbastanza, l’insegnante di Salem House scompose il flauto in tre pezzi, se li mise in tasca come prima, e mi condusse fuori. Nelle vicinanze trovammo la diligenza, e salimmo sull’imperiale; ma io ero così assonnato, che quando per strada ci fermammo per prender qualcun altro, fui messo al di dentro ove non c’erano passeggeri, e ove mi addormentai profondamente, sin che non m’accorsi che la diligenza saliva al passo una ripida collina, tutta verdeg-giante. Poi subito si fermò: era giunta a destino.

Una breve passeggiata ci condusse – intendo me e l’insegnante – a Salem House, che era recinto da un alto muro di mattoni, e aveva un aspetto uggioso. Su una porta in quel muro era un cartello con le parole «Salem House», e per una piccola inferriata nella porta fummo scorti, quando sonammo il campanello, da una burbera faccia che apparteneva, come vidi dopo che ci fu aperto, a un uomo massiccio con un collo taurino, una gamba di legno, le tempie gonfie, e i capelli accuratamente rasi intorno intorno alla testa.

– Il nuovo ragazzo – disse l’insegnante. L’uomo dalla 140

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gamba di legno mi squadrò tutto – non ci voleva molto, perché di me non c’era gran che – chiuse il cancello dietro di noi, e tolse la chiave. Ci eravamo già avviati, attraversando un viale di grossi alberi oscuri, verso il convitto, quando egli con un grido chiamò la mia guida.

– Ehi!

Ci voltammo, e lo vedemmo ritto accanto alla porta d’un bugigattolo, dove abitava, con un paio di scarpe in mano.

– Ecco – egli disse. – È venuto il ciabattino, dopo che ve ne siete andato, signor Mell, e dice che non è possibile ripararle più. Dice che non è rimasto neanche un pezzo della scarpa originale, e si stupisce come crediate che si possano ancora riparare.

Con queste parole lanciò le scarpe verso il signor Mell, il quale fece qualche passo indietro per raccoglierle, e si mise a guardarle (molto sconfortato, temo), mentre andavamo innanzi.

Osservai allora, per la prima volta, che le scarpe che portava ai piedi erano ancora più logore, e che una calza stava per sbocciare in un punto come un germoglio.

Salem House era un edificio di mattoni, quadrato, con ali, di aspetto semplice e nudo. Spirava una tal pace intorno, che dissi al signor Mell che certo i convittori dovevano essere usciti; ma egli parve sorpreso che non sapessi che era tempo di vacanze. Tutti i ragazzi erano 141

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ritornati alle case loro. Il signor Creakle, il proprietario, era al mare con la signora e la signorina sua figlia.

Io ero stato mandato colà nelle vacanze, in pena del mio misfatto. Tutto questo egli mi spiegò, camminando.

Guardai la classe in cui mi condusse, e mi parve il luogo più abbandonato e desolato che avessi mai veduto. Mi sembra di rivederla: una lunga sala, con tre lunghe file di piccoli scrittoi e sei di panche, e irta intorno intorno di pioli per i cappelli e le lavagne. Brani di vecchi quaderni e di compiti lacerati sono disseminati per il pavimento polveroso. Altri brandelli di carta, che avevano servito a dare alloggio ai bachi da seta, sono sparsi sui tavolini. Due poveri topolini bianchi, abbandonati dai loro padroni, corrono su e giù in un sudicio castello fatto di fil di ferro e di cartapesta, cercando in tutti gli angoli, coi loro occhietti rossi, qualche cosa da mangiare. Un uccello, tenuto in una gabbia appena più grossa di lui, fa di tanto in tanto un lugubre strepito saltando sul posatoio, alto due pollici, o cadendone; ma non canta, né cinguetta. V’è uno strano tanfo in tutta la stanza, come di fustagno vecchio, di mele rinchiuse e di libri muffati. Se fosse stata lasciata senza tetto al tempo che fu costruita e i cieli vi avessero piovuto, nevicato, gran-dinato e soffiato inchiostro in tutte e quattro le stagioni dell’anno, non ne sarebbe schizzato in tanta abbondanza per tutti i lati.

Portandosi via quel suo paio di scarpe irreparabili, il si-142

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gnor Mell mi aveva lasciato solo; e io andai fino all’altro capo della stanza, osservando ogni cosa in giro. A un tratto m’imbattei in un pezzo di cartone, che giaceva su un tavolino, con su queste parole vergate in una bellissima scrittura:

«Guardatevene. Morde».

M’arrampicai immediatamente sul tavolino, con la paura di veder sbucare di sotto qualche cagnaccio. Ma, sebbene guardassi intorno in grande ansia, non ne vidi neppur l’ombra. Ero ancora occupato nella mia esplora-zione, quando il signor Mell di ritorno mi domandò che cosa facessi.

– Scusate, signore – dico – sto cercando il cane.

– Il cane? – mi fa. – Che cane?

– Non è un cane, forse, signore?

– Che cosa dev’essere un cane?

– Quello da cui bisogna guardarsi, quello che morde.

Are sens