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– No, Copperfield – mi dice solennemente – non è un cane, è un ragazzo. Ho l’ordine,Copperfield, di mettere questo cartello sulla vostra schiena. Mi dispiace di cominciar così con voi; ma ho il dovere di farlo.

Allora mi prese, e il cartello, fabbricato delicatamente a bella posta per me, mi fu legato sulle spalle, come uno zaino, e dovunque andavo, dopo, avevo la consolazione di portarmelo addosso.

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La sofferenza che mi diede quel cartello nessuno può immaginarla. Mi si vedesse o non mi si vedesse, mi figuravo sempre che qualcuno lo stesse leggendo. Voltarsi e non veder nessuno, non era un sollievo, perché in qualunque direzione volgessi le spalle, immaginavo ci fosse sempre qualcuno. L’uomo dalla gamba di legno aumentava crudelmente le mie sofferenze. Se mi vedeva appoggiato contro un albero, o contro un muro o l’edificio della scuola, tonava dal suo stambugio, con una voce formidabile in cui c’era il senso dell’autorità: «Ehi, signorino! Mettete bene in mostra il cartello, o vi farò rapporto». La palestra di ricreazione era un cortile nudo, sparso di ghiaia, situato dietro l’edificio e in vista dei locali di servizio; e io sapevo che i domestici leggevano il cartello, e il macellaio lo leggeva, e il fornaio lo leggeva; che quanti, insomma, avevano occasione d’uscire e di entrare e di aggirarsi là dentro la mattina, allorché mi si ordinava di andarvi a prender aria, leggevano che dovevano guardarsi da me, perché mordevo. Ricordo che cominciai ad aver paura di me stesso, come d’una specie di ragazzo feroce che mordeva.

V’era in quella palestra una porta vecchia sulla quale i ragazzi usavano d’intagliare i loro nomi. Era coperta completamente di firme. Nella mia paura della fine delle vacanze e del ritorno degli allievi, non potevo leggere il nome d’un ragazzo, senza domandarmi in che tono e con quale enfasi egli avrebbe letto: «Guardatevene.

Morde». Uno – certo G. Steerforth – aveva inciso il pro-144

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prio nome frequentemente e profondamente, e quegli, immaginavo, avrebbe letto il cartello con voce tonante, e dopo m’avrebbe tirato i capelli. Un altro, certo Tommaso Traddles, m’avrebbe indubbiamente preso in giro, e avrebbe fatto le viste d’avere una terribile paura di me. Un terzo, Giorgio Dempre, forse l’avrebbe messo in musica. Guardavo, con un gran sgomento, quella porta, e mi sembrava che i proprietari di tutti quei nomi – ve n’erano quarantacinque nella scuola allora, mi disse il signor Mell – gridassero tutti insieme, ciascuno a suo modo, di mandarmi a Coventry: « Guardatevene. Morde».

M’avveniva la stessa cosa con i tavolini e le panche. La stessa cosa fra le deserte file dei letti vuoti, che guardavo quando andavo a coricarmi o stavo sotto le coltri. Ricordo che sognavo tutte le notti di esser con mia madre, come una volta, o di conversare con Peggotty, o di viaggiare sull’imperiale della diligenza, o di desinare di nuovo col mio infelice amico il cameriere, e tutti mi guardavano gridando, perché, disgraziatamente per me, scopri-vano che non avevo addosso che la camicia e quel cartello.

Nella monotonia della mia vita, e nella continua paura della riapertura della scuola, quante sofferenze! Avevo ogni giorno lunghi compiti da fare per il signor Mell; ma perché non c’era né il signore né la signorina Murdstone, li facevo senza incorrere in alcuna disgrazia. Pri-145

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ma e dopo, andavo a passeggiare nel cortile – sorveglia-to, come ho già detto, dall’uomo dalla gamba di legno.

Con quanta precisione rammento l’umidità intorno alla casa, le lastre verdi screpolate nella corte, il tino dell’acqua piovana che colava, e i tronchi scolorati di quei tristi alberi, che avevano gocciolato più pioggia e respirato meno sole di tanti altri. All’una desinavamo, il signor Mell e io, all’estremità superiore di un lungo refettorio nudo, pieno di tavole e d’odor di grasso. Poi si facevano altri compiti fino all’ora del tè, che il signor Mell beveva in una tazza azzurra e io in una ciotola di stagno. Durante tutto il giorno, e fino alle sette e alle otto della sera, il signor Mell lavorava continuamente al suo tavolino con penna, inchiostro, riga, libri e carta da scrivere, facendo i conti, come poi scopersi, dell’ultimo semestre.

Quando aveva messo tutto in regola per quella sera, cavava il flauto, e si metteva a sonare, e con tanta insistenza che credevo volesse trasfondervisi gradatamente con tutto il suo essere, e uscirne per il gran buco dell’estremità, e fluir dolcemente per le chiavi.

Mi riveggo ancora piccino nelle stanze scarsamente illuminate seder con la testa in mano ad ascoltare, nell’atto di mandare a memoria le lezioni, le melanconiche sonate del signor Mell. Mi riveggo coi libri chiusi, sempre in ascolto delle melanconiche sonate del signor Mell. A traverso quelle note odo, triste e solo, i rumori di casa mia e il soffio dei venti sulla pianura di Yarmouth. Mi riveggo andare a letto, in quelle camere estranee, 146

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e seder contro i guanciali, in attesa d’una parola di consolazione dalla bocca di Peggotty. Mi riveggo, scendendo giù la mattina, guardare, a traverso l’orrida bocca d’una finestra della scala, la campana della scuola sospesa sotto una tettoia sormontata da una banderuola in forma di gallo; e tremare pensando al giorno che essa avrebbe chiamato alle lezioni G. Steerforth e gli altri.

Ma temo anche più il giorno in cui l’uomo dalla gamba di legno aprirà il cancello rugginoso per lasciar passare il terribile signor Creakle. Non posso credere che io fossi una persona assai pericolosa in nessuno di quegli atteggiamenti, ma in ogni gesto che facevo, portavo sempre lo stesso avvenimento sulla schiena.

Il signor Mell non mi parlava mai molto, ma con me non si mostrava duro. Credo che, pur senza conversare, ci facessimo compagnia l’un l’altro. Dimenticavo di dire che egli a volte parlava solo, e sogghignava, e stringeva i pugni, e digrignava i denti, e si tirava i capelli senza ragione alcuna. Ma egli aveva queste caratteristiche. In principio mi spaventarono, ma presto mi ci abituai.

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VI.

ALLARGO IL CERCHIO DEI MIEI CONO-

SCENTI

Avevo condotto quella vita per circa un mese, quando l’uomo dalla gamba di legno cominciò ad aggirarsi balzelloni per le stanze con una granata e un secchio d’acqua. Ne dedussi che si facevano i preparativi per il ricevimento del signor Creakle e degli alunni. Né m’in-gannavo. Non passò molto che la granata comparve in iscuola, cacciando innanzi a sé il signor Mell e me, che per alcuni giorni ci rincantucciavamo dove meglio si poteva, andando continuamente a sbattere fra i piedi di due o tre ragazze, che s’ erano mostrate raramente prima, e allora erano sempre in mezzo alla polvere tanto che io starnutavo come se Salem House fosse tutto una gigantesca tabacchiera.

Un giorno fui informato dal signor Mell che quella sera sarebbe tornato il signor Creakle. Infatti, dopo il tè, la sera, appresi che era arrivato. Prima d’andar a letto, fui condotto al suo cospetto dall’uomo dalla gamba di legno.

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L’appartamento del signor Creakle era di gran lunga superiore ai nostri per comodità. Aveva un bel pezzetto di giardino che era una delizia in confronto della nostra polverosa palestra di ricreazione, la quale era addirittura un deserto in miniatura, tanto che io pensavo che solo un cammello, o un dromedario, vi si sarebbe potuto sentire a suo agio. Mentre andavo, tremante, a presentarmi dal signor Creakle, mi sembrò perfino un’ audacia notare che il corridoio aveva un’aria quasi elegante. Ero così atterrito quando entrai, che vidi appena la signora Creakle e la signorina Creakle (c’erano entrambe nel salotto) o altro intorno, oltre il signor Creakle, un robusto signore che con un mazzo di catene d’orologio e di suggelli sul petto sedeva in una poltrona, accanto a un grosso bicchiere e a una bottiglia.

– Così! – disse il signor Creakle. – Questo è il signorino al quale bisogna limare i denti! Voltatelo di schiena.

L’uomo dalla gamba di legno mi voltò in modo da mostrare il cartello; e avendo dato al signor Creakle il tempo d’esaminarmi a suo agio, mi girò di fronte di nuovo, e andò a piantarsi a fianco del signor Creakle. Il volto del signor Creakle era altezzoso, e aveva gli occhietti af-fondati sotto la fronte solcata di grosse vene, su un naso piccolo e un mento spazioso. Egli era calvo sul cranio, e aveva certi capelli sottili, che parevano bagnati e stavano diventando grigi, spazzolati a traverso le tempie in modo che andavano dai due lati a riunirsi sulla fronte.

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Ma la cosa che mi fece più impressione fu che non aveva voce, e parlava quasi con un bisbiglio. O che gli co-stasse molto parlar così, o che la consapevolezza d’esser così fioco gli accendesse di maggior ira il viso collerico, e le grosse vene gli s’ingrossassero maggiormente, il fatto sta che, ripensandoci, non mi sorprendo di questo particolare che mi parve il suo più caratteristico.

– A noi – disse il signor Creakle. – Che avete da dirmi su questo ragazzo?

– Non c’è nulla ancora contro di lui – rispose l’uomo dalla gamba di legno. – Non vi sono state occasioni.

Ebbi l’impressione che la signora e la signorina Creakle (che guardavo allora per la prima volta e che erano entrambe sottili e calme) non fossero deluse.

– Venite qui, signorino! – disse il signor Creakle, facendomi un cenno.

– Venite qui – disse l’uomo dalla gamba di legno, ripetendo il gesto.

– Ho la fortuna di conoscere il vostro padrigno – bisbigliò il signor Creakle, afferrandomi per l’orecchio; – ed egli è una degna persona, un uomo di carattere. Egli conosce me, ed io conosco lui. E voi mi conoscete? Ehi? –

disse il signor Creakle, pizzicandomi l’orecchio con feroce allegria.

– Non ancora, signore! – esclamai, indietreggiando per 150

Are sens