gro, che a quel cenno si mosse.
Avendo, fino a quel momento, pianto più che m’era possibile, cominciai a pensare ch’era inutile continuare a piangere, anche perché né Roderick Random, né quel capitano della Marina Reale Inglese avevano mai pianto, a quanto ricordavo, in circostanze penose. Il vetturale, vedendomi in quella risoluzione, mi propose di mettere ad asciugare il fazzoletto sulla schiena del cavallo.
Lo ringraziai, accettando; e il fazzoletto m’apparve straordinariamente piccolo, così sciorinato.
Avevo ora l’agio d’esaminare il borsellino. Era di cuoio duro, con un fermaglio, e conteneva tre scellini lucenti, che Peggotty aveva certamente sfregato col gesso, per mia maggiore delizia. Ma il suo contenuto più prezioso erano due mezze corone avvoltolate in un pezzo di carta sul quale era scritto, di mano di mia madre: «Per Davy.
Coi miei baci». Ne fui così commosso, che chiesi al vetturale d’esser tanto gentile da restituirmi il fazzoletto; ma egli mi disse ch’era meglio farne senza, e così parve anche a me, di modo che m’asciugai gli occhi su una manica, e cessai di piangere.
E sul serio inoltre; benché, in conseguenza delle precedenti commozioni, fossi ancora scosso di tanto in tanto da un violento singhiozzo. Andati innanzi per un po’ di tempo, domandai al vetturale se m’avrebbe accompagnato per tutto il viaggio.
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– Fin dove? – chiese il vetturale.
– Fin là – io dissi.
– Dove fin là? – chiese il vetturale.
– Vicino a Londra – io dissi.
– Allora questo cavallo – disse il vetturale, dando una scossa alle redini come per mostrarmelo – prima d’aver fatto metà della strada, sarebbe più morto d’un pezzo di maiale arrosto.
– Allora vieni soltanto fino a Yarmouth? – gli domandai.
.
– Ora ci siamo – disse il vetturale. – Là ti consegnerò alla diligenza, e la diligenza ti porterà a... dov’è.
Siccome questo per il vetturale, che aveva nome Barkis, rappresentava già un lungo discorso, perché, come ho già osservato in un precedente capitolo, egli era di carattere flemmatico e per nulla affatto loquace – gli offersi una ciambella come un segno di attenzione. Egli se la mangiò in un boccone, esattamente come un elefante, e sulla sua grossa faccia non ne apparve indizio, appunto come sarebbe avvenuto con un elefante.
– Le fa lei? – disse Barkis, sempre chinato in avanti, pesantemente, con le braccia sulle ginocchia.
– Vuoi dire Peggotty?
– Ah! – disse Barkis. – Lei.
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– Sì. Lei fa tutti i dolci a casa e tutta la cucina.
– Lei?
Atteggiò la bocca come per dar la stura a una fischiati-na, ma non fischiò. Stette a lungo fissando le orecchie del cavallo, come se non le avesse mai viste; e rimase così per un bel pezzo. Poi mi disse:
– Nessun amoretto, immagino.
– Amaretto hai detto? – Perché credevo che volesse altro da mangiare, e avesse segnatamente alluso a quella particolare specie di dolce.
– Amoretto – disse Barkis – amoretto! Nessuno va a passeggio con lei?
– Con Peggotty?
– Ah! – egli disse. – Lei!
– Oh, no. Non ha fatto mai all’amore.
– No? – disse Barkis.
Di nuovo atteggiò la bocca a un fischio, ma neppure quella volta si mise a fischiare, e s’immerse nella contemplazione delle orecchie del cavallo.
– Così le fa lei – disse Barkis, dopo un lungo intervallo di meditazione – tutte le torte di mele, e tutta la cucina, non è vero?
Risposi ch’era esattamente così.
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