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– Peggotty.

– Il nome di battesimo? O il nome di famiglia?

– Oh, non è il suo nome di battesimo. Il suo nome di 196

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battesimo è Clara.

– Veramente? – disse Barkis.

Parve trovare in questo particolare materia immensa di meditazione, e se ne stette pensoso a fischiettare fra sé per qualche tempo.

– Ebbene – ripigliò finalmente. – Tu le dici: «Peggotty!

Barkis aspetta una risposta». Dice lei, forse: «Risposta a che?» Tu le dici: «A ciò che ti dissi». «Che cosa?» dice lei. «Barkis ha intenzione», tu dici.

Barkis accompagnò con una gomitata, che mi fece dolere il fianco, questo elaboratissimo suggerimento. Dopo di che si chinò verso il cavallo nella sua maniera solita; e non fece più alcuna allusione all’argomento, tranne, mezz’ora dopo, col cavare di tasca un pezzo di gesso, e scrivere nell’interno del copertone del carro! «Clara Peggotty», probabilmente come un’annotazione riservata.

Ah, lo strano sentimento che provavo durante il mio ritorno a casa, che non era più casa mia, nel veder ogni oggetto che incontravo ricordarmi l’antica felice dimora, un sogno che non potevo risognare mai più. Il tempo in cui io, mia madre e Peggotty non eravamo che un’anima sola, e non c’era nessuno a inframmettersi tra noi, si levava così tristemente innanzi a me sulla strada, che non so se fossi contento di trovarmi colà – e non pensassi che forse sarebbe stato meglio rimanermene lontano, 197

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e dimenticar tutto in compagnia di Steerforth. Ma già ero arrivato; presto fin a casa, dove i vecchi nudi olmi torcevano le loro molteplici braccia alla grigia aria invernale, e le reliquie dei vecchi nidi di cornacchie si libravano al vento.

Il vetturale depose il mio baule al cancello del giardino, e mi lasciò. Io mi diressi per il viale a casa, guardando le finestre, e temendo a ogni passo di veder apparire qua o là dietro i vetri le mutrie del signor Murdstone o della signorina Murdstone. Ma non vidi nessuno; e arrivato sulla soglia, e sapendo come si apriva la porta, di giorno, senza picchiare, entrai con tacito e timido passo.

Dio sa come fosse viva e tenace la mia memoria, se mi fu ridestata dal suono della voce di mia madre nell’antico salotto, nel momento che misi piede nell’atrio. Ella canterellava a voce bassa. Quando ero bambino nelle sue braccia aveva dovuto cantar così, cullandomi. Le parole mi sonavano nuove, e pure erano così vecchie che mi colmarono il cuore da farlo traboccare; come un amico che ritorna dopo una lunga assenza.

Credetti, dalla maniera pensosa e raccolta con cui mia madre mormorava la canzone, che essa fosse sola. Ed entrai pianamente nella stanza. Sedeva accanto al fuoco, allattando un bambino, la cui minuscola mano si teneva contro il collo. Cantando, fissava gli occhi in quel visi-no. Avevo ragione, con lei non c’era nessuno.

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La chiamai, ed essa diede un balzo e cacciò un grido.

Ma vedendomi mi chiamò il suo caro Davy, il «caro figlio suo!», e venendo quasi in mezzo alla stanza per in-contrarmi, s’inginocchiò sul pavimento e mi baciò, e mi tenne la testa sul seno accanto alla creaturina che già v’era annidata, e me ne diede la manina a baciare.

Vorrei esser morto allora. Avrei voluto morire allora con quel sentimento in cuore. Sarei stato più degno del Cielo di quanto mai fossi più tardi.

– È tuo fratello – disse mia madre, carezzandomi. –

Davy, figlio bello! Povero figlio mio! – E mi baciava con grande ardore, e mi stringeva intorno al collo. Stava così ad abbracciarmi, quando sopraggiunse Peggotty, e mise le ginocchia in terra accanto a noi, e ci stette a vezzeggiare per un quarto d’ora, pazza di gioia.

Pareva che il vetturale avesse anticipato il viaggio, e io non fossi atteso per quell’ora. Pareva, anche, che il signore e la signorina Murdstone fossero partiti per una visita nei dintorni, e che non sarebbero rientrati prima di notte. Non avevo mai sperato tanto. Non avevo mai pensato probabile che ancora una volta noi tre potessimo stare indisturbati insieme; e mi sembrava, intanto, che il tempo antico fosse ritornato.

Desinammo insieme accanto al fuoco. Peggotty era lì pronta per servirci, ma mia madre non volle, e la fece sedere con noi. Ebbi il mio vecchio piatto con l’immagi-199

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ne bigia d’un bastimento da guerra a vele spiegate, che Peggotty aveva tenuto gelosamente custodito chi sa dove, in tutto il tempo della mia assenza, perché non si rompesse, giacché non si sarebbe ripagato, ella diceva, neppure con un centinaio di sterline. Ebbi il mio vecchio bicchiere, sul quale era inciso un bel Davide, e la mia vecchia forchettina e il vecchio coltellino che non tagliava.

Mentre eravamo a tavola, pensai che l’occasione fosse favorevole di dire a Peggotty la faccenda di Barkis, e quando l’ebbi detta, ella cominciò a ridere, a ridere, portandosi il grembiule in faccia.

– Peggotty – disse mia madre – che c’è? Peggotty rise di più, e si tenne più stretto il grembiule in faccia; e pareva che avesse la testa in un sacco, quando mia madre tentò di scoprirla.

– Che stai facendo, stupida! – disse mia madre, ridendo.

– Che uomo, che uomo! – esclamò Peggotty. – Vuole sposarmi.

– Sarebbe un buon partito per te, no? – disse mia madre.

– Oh, non so! – disse Peggotty. – Non me lo domandate. Non lo vorrei neppure se fosse d’oro. Non voglio nessuno.

– Allora perché non glielo dici? – disse mia madre.

– Dirglielo? – rispose Peggotty, guardando di sotto il 200

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