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Sussultai, a quest’ordine, di viva gioia; ma il cuore mi punse per il mio egoismo, assistendo all’effetto prodotto da esso sul signor Dick, che era tanto afflitto all’idea della nostra separazione e giocò per conseguenza così male, che mia zia, dopo avergli dati parecchi buffetti d’ammonimento con le pedine sulle giunture delle dita, chiuse la scatola e dichiarò di non voler giocare più con 386

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lui. Ma il signor Dick, sentendo da mia zia che io sarei ritornato qualche volta il sabato, e che egli avrebbe potuto qualche volta venire a vedermi il mercoledì, riprese coraggio e fece voto di fabbricare per quell’occasione un aquilone di dimensioni molto più grandi di quello esistente. La mattina era abbattuto di nuovo, e si sarebbe sostenuto col darmi tutto il denaro che aveva in tasca, oro e argento compresi; ma mia zia s’interpose e limitò il dono a cinque soli scellini, i quali, per le vive preghiere di lui, furono portati a dieci. Ci separammo al cancello del giardino nella maniera più affettuosa, e il signor Dick non rientrò in casa che quando ci perse di vista.

Mia zia, che era perfettamente indifferente all’opinione pubblica, guidava il cavallino grigio a traverso Dover con mano maestra, sedendo rigida e impettita come il cocchiere di un principe, e seguendo con occhio fermo tutti i movimenti del cavallo, risoluta a non lasciarlo fare a suo capriccio in nessun modo. Quando arrivammo in una strada di campagna, però, gli permise qualche libertà e, gettando uno sguardo su me, che stavo in una valle di guanciali accanto a lei, mi domandò come stessi.

– Veramente bene, zia, grazie – io dissi.

Ella ne fu così soddisfatta, che per aver ambo le mani occupate, mi fece una carezza sulla testa col manico dello staffile.

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– È una scuola grande, zia? – domandai.

– Non so – disse mia zia. – Andremo prima dal signor Wickfield.

– Ha una scuola? – domandai.

– No, Trot, ha un ufficio.

Non chiesi altre informazioni sul signor Wickfield, perché ella non sembrava disposta a darmene, e parlammo d’altro, finché non arrivammo a Canterbury, dove, essendo giorno di mercato, mia zia ebbe una bella occasione per cacciare il cavallino grigio fra carri, panieri, ortaglie e chincaglieria minuta. Gli strettissimi serpeg-giamenti che esso faceva, ci attirarono dalla gente lì intorno una bella varietà d’apostrofi non sempre compli-mentose; ma mia zia andava innanzi con perfetta indifferenza, e avrebbe attraversato, credo, con la stessa freddezza un paese ostile.

Finalmente ci fermammo innanzi a una casa molto antica, che si sporgeva tutta sulla strada: un edificio dalle finestre lunghe e basse che si sporgevano ancora più innanzi e con travi sotto il tetto, con delle teste intagliate all’estremità, le quali si sporgevano anch’esse: mi parve che tutta la casa si chinasse innanzi, tentando di vedere i passanti sull’angusta via lastricata. Era una casa vecchia, ma linda e immacolata: il martello d’ottone alla vecchia foggia, sulla porta bassa ad arco, ornata di ghir-lande di frutti e fiori scolpiti, splendeva come una stella; 388

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i due gradini di pietra che conducevano alla soglia erano così bianchi che sembravano coperti d’una candida tela; e tutti gli angoli e i cantucci, e gl’intagli e le sculture, e le bizzarre piccole lastre di vetro, e le bizzarre finestri-ne, benché vecchi come le colline, erano puri come la più pura neve caduta mai sulle colline.

Quando la vetturetta si fermò alla porta, e i miei occhi si misero ad osservar la casa, vidi a un finestrino del pianterreno (in una torretta rotonda su un lato dell’edificio) apparire un viso cadaverico, e rapidamente sparire. Poi la bassa porta ad arco s’aprì, e il viso uscì fuori. Era cadaverico, com’era apparso al finestrino, benché nel colorito vi fosse quella sfumatura di rosso che a volte si osserva nella pelle delle persone dai capelli rossi. Apparteneva a un giovane dai capelli rossi – d’una quindicina d’anni, come seppi poi, ma all’apparenza maggiore

– falciati quasi rasente alla pelle; un giovane che quasi non aveva sopracciglia e non ombra di ciglia, con occhi di un rosso fulvo, così nudi e scoperti, che mi domandai, ricordo, come facesse ad addormentarsi. Aveva le spalle alte e ossute; era vestito decentemente di nero, con una minuscola cravatta bianca; era abbottonato fino alla gola; e aveva le mani così lunghe, magre e scheletrite, che attrassero particolarmente la mia attenzione, quand’egli si mise accanto al cavallo, a carezzargli il muso e a guardar noi nella vetturetta.

– È in casa il signor Wickfield, Uriah Heep? – disse mia 389

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zia.

– Sì, signora – disse Uriah Heep: – favorite entrare. – E

indicò con la lunga mano la stanza che intendeva.

Scendemmo; e lasciandogli la custodia del cavallino, entrammo in un lungo salotto basso di prospetto sulla via. Dalla finestra vidi Uriah Heep soffiare nelle narici del cavallo e immediatamente coprirgliele con la mano, come se gli stesse facendo un incantesimo. Di fronte a un antico e grande caminetto erano due ritratti: l’uno d’un signore dai capelli grigi, ma per nulla affatto vecchio, e dalle sopracciglia nere, occupato a guardare in certe carte, tenute insieme da un nastrino rosso; l’altro, d’una signora, che mi fissava con espressione di calma e di dolcezza.

Mi voltavo attorno, in traccia, credo, del ritratto di Uriah, quando una porta all’estremità della stanza si aperse, e n’entrò un signore, alla cui vista mi volsi di nuovo al ritratto già menzionato, per assicurarmi che non fosse uscito dalla cornice. Ma il ritratto non s’era mosso; e mentre il signore veniva verso di noi alla luce, vidi ch’egli era un po’ più vecchio del ritratto.

– Signora Betsey Trotwood – disse il signore – favorite, prego. Sono stato un momento occupato, e vi prego di scusarmi. Voi sapete il mio scopo. Non ne ho che uno al mondo.

La signora Betsey lo ringraziò, e lo seguimmo nella sua 390

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stanza ch’era arredata come quella di un uomo d’affari, con libri, carte, scatole di latta, e così via. La stanza guardava su un giardino, e aveva una cassaforte di ferro incastrata nel muro, così a ridosso della cappa del caminetto, che mi domandai come potessero passarci di dietro gli spazzacamini quando dovevano spazzarne la canna.

– Bene, signora Trotwood – disse il signor Wickfield; perché seppi subito ch’era lui, e che era avvocato, e am-ministratore dei beni d’un ricco signore della contea. –

Che vento vi mena qui? Non un cattivo vento, spero?

– No – rispose mia zia – non son venuta per motivi di giustizia.

– Molto meglio, signora – disse il signor Wickfield; –

molto meglio venire per qualche altra cosa.

Egli ora aveva i capelli perfettamente candidi, ma le sopracciglia ancora nere: il viso piacente, e, pensavo, bello. Nel colorito mostrava una certa vivacità, che da molto io ero abituato, grazie agl’insegnamenti di Peggotty, ad attribuire al vino di Porto; e alla stessa causa attribuii il tono della sua voce e la sua pinguedine già più che in-cipiente. Era vestito con molta lindura, in un abito turchino, sottoveste a strisce e calzoni di cotone, e il fine sparato della camicia e la cravatta di batista apparivano così morbidi e bianchi, che rammentarono alla mia immaginazione errabonda il petto candido d’un cigno.

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