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XIX.

GUARDO IN GIRO E FACCIO UNA SCO-

PERTA

Al termine dei miei studi e all’ora di abbandonare la scuola del dottor Strong, non so se in fondo al cuore fossi lieto o triste. V’avevo trascorso un periodo felice, sentivo un grande affetto per il dottore, e occupavo un posto eminente e segnalato in quel piccolo mondo. Per queste ragioni mi dispiaceva d’andarmene; ma per altre ragioni, non tutte serie, v’ero costretto. Vaghe idee d’essere un giovane libero delle proprie azioni, delle cose meravigliose che quel magnifico animale poteva vedere e fare, e dei meravigliosi effetti che non poteva mancare di produrre nel mondo dei grandi, m’attraevano molto.

Pesavano tanto queste considerazioni visionarie sul mio spirito giovanile, che mi sembra, a quanto ora credo, che lasciassi la scuola senza rimpianti. Quella separazione non fece su me l’impressione di altre separazioni. Tento invano di ricordare ciò che sentissi allora, e le circostanze della partenza; ma certo non fu un momento grave della mia vita. Credo che la prospettiva che mi s’apriva dinanzi mi avesse confuso. So che il mio passato di ragazzo pesava poco o nulla allora sulla bilancia; e che la 485

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vita non era altro che una gran bella fiaba, che m’accingevo a leggere.

Mia zia ebbe molti gravi colloqui con me sulla professione alla quale mi sarei dedicato. Per un anno o più m’ero sforzato di trovare una risposta soddisfacente alla domanda ch’ella spesso mi ripeteva: «Che ti piacerebbe d’essere?». Ma io non avevo, a quanto mi sembrava, particolare inclinazione per nulla. Se avessi potuto apprendere per ispirazione la scienza della navigazione, assumere il comando di qualche rapido veliero, e fare un trionfale viaggio di scoperte intorno al mondo, credo che mi sarei considerato perfettamente a posto. Ma, non potendo contare su questa prodigiosa ispirazione, desideravo soltanto di darmi a una professione che non co-stasse troppo gravi sacrifici finanziari a mia zia; e, quale che si fosse, di farvi tutto il mio dovere.

Il signor Dick aveva regolarmente assistito ai nostri colloqui, con una condotta saggia e riflessiva. Diede una sola volta un suggerimento; e in quell’occasione (non so come gli venisse in mente) mi propose a un tratto la professione del calderaio. Mia zia accolse questa proposta con tanta mala grazia, che egli non ne arrischiò una seconda; e si limitò d’allora in poi ad aspettare attentamente le decisioni di lei, e a farsi tintinnare il denaro in tasca.

– Trot, vuoi che ti dica una cosa, mio caro? – disse mia zia una mattina della settimana natalizia, dopo il mio 486

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congedo dalla scuola. – Siccome è un punto difficile da risolvere, e dobbiamo possibilmente cercar di non commettere un errore nella nostra decisione, credo che sarà bene prenderci un po’ di tempo per riflettere. Intanto, devi cercar di considerare la cosa sotto un nuovo aspetto, e non più da studente.

– Cercherò, zia.

– Ho pensato – proseguì mia zia – che un po’ di cambiamento, e un’occhiata al mondo, possano giovarti nell’a-iutarti a conoscere te stesso, e a formarti un giudizio più sicuro. Se tu facessi un viaggetto? Se andassi laggiù di nuovo, per esempio, a vedere quella... quella strana donna dal nome barbaro? – disse mia zia, stropicciandosi il naso, perché a Peggotty non poté mai completamente perdonare il nome.

– Questa è una magnifica idea, zia.

– Bene – disse mia zia – è una fortuna che piaccia anche a me. Ma è naturale e ragionevole che a te debba piacere. E io son persuasa, Trot, che in tutto ciò che farai sarai naturale e ragionevole.

– Lo spero, zia.

– Tua sorella, Betsey Trotwood – disse mia zia – sarebbe stata naturale e ragionevole come nessuna mai. Tu sarai degno di lei, spero.

– Spero d’esser degno di voi, zia. Questo mi basterà.

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– È una fortuna che quella povera cara piccina di tua madre non sia viva – disse mia zia, con uno sguardo di approvazione; – se no, a quest’ora, sarebbe così orgogliosa di suo figlio, che la testolina le girerebbe completamente, se gliene fosse rimasto ancora un tantino da far girare. (Mia zia si scusava sempre della propria debolezza per me, con l’addossarla così alla mia povera madre).

– Dio ti benedica, Trotwood, come me la rammenti perfettamente!

– Piacevolmente, spero, zia.

– È lei precisa, Dick – disse mia zia, con forza – precisamente come era lei in quel pomeriggio, prima di cominciare a soffrire. Cielo! È lei precisa, come un occhio somiglia all’altro.

– Davvero? – disse il signor Dick.

– E preciso Davide anche – disse mia zia risolutamente.

– Davide preciso – disse il signor Dick.

– Ma ciò che voglio che tu sia, Trot – ripigliò mia zia –

non intendo fisicamente, ma moralmente; fisicamente sei bene in gambe... che tu sia un uomo fermo. Un bell’uomo fermo, con una volontà tua. Risoluto – disse mia zia, scotendo il capo e stringendo il pugno – determinato. Con carattere, Trot. Con una forza di carattere che non si lasci scuotere, tranne che dalle buone ragioni, da nulla e da nessuno. Ecco ciò che voglio che tu sia. Questo è ciò che tuo padre e tua madre avrebbero dovuto es-488

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sere, lo sa il Cielo, e sarebbe stato meglio per loro!

Io espressi la speranza di diventare ciò ch’ella desiderava.

– E perché tu possa cominciare, in qualche modo, a fidare su te stesso, e a contare su te stesso – disse mia zia

– ti manderò solo a fare un viaggetto. Avevo pensato già di farti accompagnare da Dick; ma pensandoci meglio, è bene che egli rimanga a custodire me.

Il signor Dick parve, per un istante, deluso; ma l’idea dell’onore e della dignità conferitigli, con la custodia della donna più meravigliosa del mondo, gli fece tornare il viso radioso.

– E poi – disse mia zia – c’è il memoriale. – Ah, certo! –

disse il signor Dick in fretta.

– Ho intenzione, Trotwood, di finirlo subito... veramente deve esser finito subito! E poi lo presenterò, sai... e poi... – disse il signor Dick, frenandosi e fermandosi a lungo – vi sarà un gran bel tegame di pesce.

In conseguenza del bel progetto di mia zia, poco dopo fui provveduto d’una bella somma di denaro, d’una valigia, e teneramente congedato per la mia spedizione. Al momento della separazione, mia zia mi diede qualche consiglio, e molti baci affettuosi; dicendomi che, siccome il suo scopo era di farmi osservare e riflettere un poco, mi raccomandava di fermarmi, se lo desideravo, un po’ di giorni a Londra, o recandomi nel Suffolk o tor-489

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nandone. In una parola, ero libero di fare ciò che volevo, per tre o quattro settimane; e non altra condizione era imposta alla mia libertà che l’anzidetto osservare e riflettere un poco, e l’obbligo di scriverle tre volte la settimana, narrandole fedelmente tutto.

Andai prima a Canterbury, per congedarmi da Agnese e dal signor Wickfield (nella loro casa non avevo abbandonato ancora la mia vecchia stanza), e anche dal buon dottore. Agnese fu molto lieta di rivedermi, e mi disse che da quando me n’ero andato, la casa non si ricono-sceva più.

– Neppure io son più quello, quando son lontano – io dissi. – Sembra che mi manchi la destra, quando non vi veggo. Non è dir molto, perché non c’è testa né cuore nella destra. Chiunque vi conosce, consulta voi, ed è guidato da voi, Agnese.

– Chiunque mi conosce, mi vizia, io credo – ella rispose con un sorriso.

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