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David Copperfield

no raccolte senza fiorire per un centinaio d’anni di seguito, o al prato rassettato e lindo, alle urne di pietra, alla passeggiata del dottore, al lieto suono della campana della Cattedrale, che si librava e si spandeva su ogni cosa lì intorno. Era come se il tranquillo santuario della mia infanzia fosse stato profanato innanzi ai miei occhi, e la sua pace e il suo onore fossero stati dispersi ai venti.

Ma la mattina portò con sé la mia partenza dall’antica casa, che Agnese aveva adornata del proprio incanto; e questo mi occupò sufficientemente lo spirito. Senza dubbio vi sarei tornato di nuovo; avrei potuto dormir di nuovo – forse spesso – nella mia vecchia camera; ma i giorni della mia dimora colà se n’erano andati, e il vecchio tempo felice era trascorso. Avevo il cuore così grosso, facendo un pacco di quei libri e di quei vestiti che ancora dovevo spedire a Dover, che non mi curai di farmi scorgere da Uriah Heep; il quale si mostrava tanto servizievole nell’aiutarmi, che io poco caritatevolmente pensai che fosse straordinariamente soddisfatto della mia partenza.

Mi separai da Agnese e dal padre, sforzandomi invano di celar virilmente la mia commozione, e salii sull’imperiale della diligenza di Londra. Ero così intenerito e disposto al perdono, attraversando la città, che avevo una mezza idea di fare un cenno al mio vecchio nemico il macellaio e di gettargli cinque scellini da bere alla mia 502

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salute. Ma egli mi apparve un macellaio cocciutissimo nell’atto che raschiava il gran ceppo nella bottega, e così poco abbellito nell’aspetto dalla mancanza del canino che io gli avevo fatto saltar via, che pensai bene di non fare quel passo conciliativo.

La prima cosa che mi venne in mente, ricordo, quando ci trovammo sulla strada in campagna, fu di darmi un’aria importante col cocchiere, e di parlare in tono straordinariamente grave. M’era molto disagevole; ma tenni duro, perché sentivo che era la maniera di mostrare una dignità di persona adulta.

– Andate a Londra, signore? – disse il cocchiere. – Sì, Guglielmo – dissi con accento di condiscendenza (io lo conoscevo). – Vado a Londra. E dopo andrò nel Suffolk!

– A caccia, signore? – disse il cocchiere. Egli sapeva, precisamente come me, che in quella stagione era parimenti probabile che andassi alla pesca delle balene; ma, ad ogni modo, mi sentii solleticato.

– Non so – dissi, assumendo un’aria indecisa – se tirerò o no qualche colpo.

– Si dice che gli uccelli si sian fatti molto timidi – disse Guglielmo.

– Eh, già! – io dissi.

– Siete della contea di Suffolk, signore?

– Sì – dissi con tono d’importanza – sono della contea 503

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di Suffolk.

– Si dice che gli gnocchi siano squisiti, laggiù – disse Guglielmo.

Non ne sapevo nulla; ma stimai necessario sostenere il lustro delle istituzioni del mio paese, e di mostrarme-ne familiare; così scossi il capo, come a dire: «Qual dubbio?».

– E i puledri? – disse Guglielmo. – Quelle son bestie! Un puledro del Suffolk, quando è buono, vale il suo peso in oro! Voi, signore, non avete mai allevato puledri del Suffolk?

– N... no – dissi – veramente no!

– Ecco un signore qui dietro – disse Guglielmo – che me ha allevati chi sa quanti all’ingrosso!

Il signore al quale si alludeva era un uomo da un occhio guercio poco attraente e un mento molto prominente, dal cappello alto e bianco su una falda esigua e piatta e i calzoni color tabacco così stretti alle gambe, che sembravano energicamente abbottonati sulle due costure, dalle scarpe sino ai fianchi. Aveva il mento poggiato sulla spalla del cocchiere, e m’era così vicino che il suo respiro mi vellicava il collo; e mentre io mi voltavo per (guardarlo, egli dava una sbirciatina ai cavalli con l’occhio buono, in maniera di profondo conoscitore.

– Non è vero? – chiese Guglielmo.

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– Che cosa? – disse il signore di dietro.

– Che avete allevato i puledri del Suffolk all’ingrosso?

– Sicuramente – disse il signore. – Non vi son razze di cavalli o razze di cani che io non abbia allevate. Per certuni i cavalli e i cani rappresentano un capriccio. Per me sono mangiare e bere... casa, moglie e bambini... leggere, scrivere e far di conti... tabacco da naso, tabacco da fumo, e sonno.

– Un uomo simile non può stare a sedere dietro il cocchiere, non vi pare? – mi disse Guglielmo all’orecchio, scotendo le redini.

Trassi da questa osservazione l’indicazione che gli si dovesse dare il mio posto; e, arrossendo, offersi di ce-derlo.

– Bene, se non ci tenete, signore – disse Guglielmo –

credo che sarebbe più decoroso.

Ho considerato quella cessione come il mio primo insuccesso nella vita. Quando avevo pagato il mio posto nell’ufficio della diligenza, era stato scritto «Seggio del conduttore», accanto al mio nome, e avevo dato all’impiegato mezza corona. M’ero messo un soprabito speciale e uno scialle, appunto per far onore a quel seggio eminente; mi c’ero pavoneggiato un bel pezzo con la persuasione di non far sfigurare la diligenza. Ed ecco che alla prima tappa venivo soppiantato da un individuo male in arnese e con un occhio guercio, che non aveva 505

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altro merito che l’odore del letame e la capacità, più di una mosca leggera che di un essere umano, di saltar al disopra di me, mentre i cavalli erano lanciati a galoppo.

Una sfiducia di me stesso, dalla quale spesso sono stato assalito in piccole occasioni della vita nelle quali meno l’avrei desiderata, non fu certamente arrestata nel suo sviluppo da questo incidentino sull’imperiale della diligenza di Canterbury. Era inutile rifugiarsi nella gravità del tono. Parlai dal fondo dello stomaco per tutto il resto del viaggio, ma mi sentivo completamente annichilito e formidabilmente giovane.

Pure, era curioso e interessante, con una buona educazione, un bel vestito e molto denaro in tasca, seder co-lassù, dietro quattro cavalli, rintracciando i luoghi dove avevo dormito nel mio triste viaggio. I miei pensieri erano abbondantemente occupati: in certi punti della strada, quando vedevo i vagabondi che lasciavamo indietro, e incontravo certa triste espressione di grinte che ricordavo benissimo, sentivo come se la mano annerita del calderaio m’aggrappasse ancora lo sparato della camicia.

Quando, entrati, strepitando, nell’angusta via di Chatham, diedi una rapida occhiata al vicolo del vecchio mostro che mi aveva comprato la giacca, allungai avidamente il collo per cercare il luogo dove m’ero seduto al sole e all’ombra in attesa del mio denaro.

Quando arrivammo finalmente a una tappa da Lon-506

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dra e passammo innanzi a Salem House, dove il signor Creakle infuriava con mano pesante, avrei dato tutto ciò che possedevo per avere la legittima autorizzazione di andarlo a picchiare ben bene e di mettere in libertà, come tanti passeri ingabbiati, tutti i suoi infelici scolari.

Andammo alla Croce d’Oro a Charing Cross, allora una specie di albergo muffito in un quartiere soffocante. Un cameriere mi condusse nella sala del caffè e una cameriera mi condusse in una piccola camera da letto, che odorava come una carrozza da nolo, ed era tutta chiusa come un sepolcro per famiglia. Ero ancora penosamente conscio della mia giovinezza, perché nessuno aveva alcun rispetto per me: la cameriera si mostrò assolutamente indifferente a qualunque mia opinione su qualunque soggetto, e il cameriere si permise di aver con me un atteggiamento familiare offrendomi consigli a tutto spiano.

– Bene – disse il cameriere in tono della massima confidenza – che vorreste per desinare? Ai giovanetti, in generale, piace molto il pollame: Pigliate un pollo.

Io gli dissi, con la maggiore maestà possibile, che non avevo voglia di pollo.

– No, i giovanetti in generale, sono stufi del manzo e del castrato; pigliate una costoletta di vitello.

Are sens