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– Perfettamente indifferente.

– Non avete alcuno scopo – disse il signor Wickfield

– per volerlo all’estero e non in patria?

– Nessuno – rispose il dottore.

– Io ho il dovere di credervi, e naturalmente vi credo

– disse il signor Wickfield. – Se l’avessi saputo prima, il mio incarico sarebbe stato molto semplificato. Ma confesso che credevo diversamente.

Il dottor Strong lo guardò dubbioso e curioso; ma poi quasi immediatamente mostrò un sorriso che mi rianimò: perché era pieno di amabilità e di dolcezza e di tanta semplicità – visibile inoltre in tutti i modi del dottore, quando se ne scioglieva certo ghiaccio con cui lo vela-405

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vano lo studio e la meditazione – che attraeva e incorag-giava uno scolaro giovinetto come me. Ripetendo «sì» e

«perfettamente indifferente», e altre brevi assicurazioni con lo stesso scopo, il dottor Strong trotterellava innanzi a noi con passo stranamente ineguale; ma il signor Wickfield aveva assunto un’aria grave, e scoteva il capo, come seguendo un suo ragionamento intimo, senza avvedersi ch’io lo osservavo.

La sala della scuola era piuttosto vasta, nell’angolo più tranquillo dell’edificio, di fronte a una mezza dozzina delle grandi urne di pietra pomposamente schierate sul recinto, e con la vista d’un vecchio giardino solitario, appartenente al dottore, dove, contro un muro al sole, già maturavano le pesche. Sul prato, al di sotto della finestra, v’erano, in due casse, due piante d’aloe; le foglie larghe e dure di quelle piante (che sembravano di latta dipinta) si sono associate d’allora nel mio spirito con l’idea del silenzio e del raccoglimento. Più d’una ventina di ragazzi avevano la testa sui libri quando noi entrammo; ma si levarono per salutare il dottore, e rimasero in piedi, vedendo me e il signor Wickfield.

– Un nuovo allievo, signori – disse il dottore; – Trotwood Copperfield.

Un certo Adams, che era caposquadra, uscì dal suo posto per darmi il benvenuto. La cravatta bianca gli dava l’aria d’un giovane ministro anglicano, ma egli era affabile e allegro; e mi mostrò il mio posto, e mi presentò ai 406

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vari insegnanti, con un garbo che m’avrebbe infuso la massima disinvoltura, se fosse stato possibile.

Ma era da tanto che non avevo più frequentato ragazzi simili e che non ero stato con compagni della mia stessa età, tranne Mick Walker e Fecola di Patate, ché in vita mia non m’ero mai sentito più diverso da loro. Ero così conscio d’aver assistito a scene delle quali essi non avevano idea, e d’avere acquistato un’esperienza non con-facente alla mia età, al mio aspetto e alla mia condizione di scolaro, che quasi mi rimproveravo come un atto d’impostura l’essere andato a presentarmi lì come un piccolo scolaro dei soliti. Ero cresciuto, nel periodo Murdstone e Grinby, lungo o breve che potesse essere stato, così estraneo ai divertimenti e ai giuochi dei ragazzi, che sapevo di esser disadatto e maldestro nelle inezie più comuni della loro età. Tutto ciò che avevo appreso era così svaporato lontano dal mio spirito nelle sordide cure che lo avevano stretto e ambasciato da mattina a sera, che quando fui esaminato su ciò che sapevo, non sapevo più nulla, e fui assegnato all’ultima classe della scuola. Ma turbato com’ero dalla mia mancanza di destrezza nei giuochi e dalla mia ignoranza nei libri, ero ancor più turbato dalla considerazione che in ciò che sapevo ero molto più distante dai miei compagni che in ciò che non sapevo. E mi domandavo che cosa avrebbero pensato, se avessero conosciuto la mia intimità con la prigione di King’s Bench. V’era qualche cosa in me che avrebbe rivelato, nonostante il mio silenzio, i miei atti in 407

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relazione con la famiglia Micawber? Tutti quei prestiti su pegno, tutte quelle vendite e quelle cene? E se qualcuno di quei ragazzi mi avesse visto attraversare, stremato e lacero, Canterbury, e a un tratto riconosciuto?

Che cosa avrebbero detto, essi che calcolavano tanto poco il denaro, se avessero saputo quanti conti avevo fatto sui miei soldini, per comprare ogni giorno un po’

di cervellata e di birra, o una fetta di budino? Che impressione avrebbe fatto su loro, innocenti della vita di Londra e delle vie di Londra, scoprire che io le conoscevo (e mi vergognavo di conoscerle) nelle loro peggiori manifestazioni? Tutto questo mi agitò così la mente, quel primo giorno di scuola dal dottor Strong, che temevo di volgere in giro la minima occhiata o di fare il minimo gesto; rannicchiandomi in me stesso ogni volta che qualcuno dei nuovi compagni mi s’avvicinava; e fuggendo subito, nello stesso istante che finì la scuola, per paura di tradirmi nelle mie risposte alle loro amichevoli domande.

Ma la vecchia casa del signor Wickfield faceva su me l’effetto d’un calmante. Quando picchiai alla porta, coi nuovi libri di scuola sotto il braccio, cominciai a sentir svanire la mia inquietudine. Andando di sopra, nella camera vasta e ariosa, mi parve che la penombra della scalinata avviluppasse tutti i miei dubbi e le mie paure e rendesse il mio passato più indistinto. E mi misi a studiare con grande buona volontà fino all’ora del desinare (s’usciva di scuola alle tre), e andai da basso ancora con 408

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la speranza di diventare un ragazzo in qualche modo tollerabile.

Agnese era nel salotto, in attesa del padre, che era trattenuto da qualcuno nello studio. Mi venne incontro col suo bel sorriso, domandandomi se mi fosse piaciuta la scuola. Le dissi che mi sarebbe, certo, piaciuta moltissimo; ma che in principio mi ci sentivo un po’ impacciato.

– E voi non siete mai stata a scuola? – dissi.

– Oh, sì! Tutti i giorni.

– Ah, ma voi intendete qui, a casa vostra?

– Papà non tollererebbe che io andassi altrove – ella rispose, sorridendo e scotendo il capo. – La sua padroncina deve esser sempre presente in casa, capite.

– Egli certamente vi vuol molto bene – dissi.

Ella accennò di «sì», e andò alla porta a sentire se venisse su, per andargli incontro sulla scala. Ma siccome non sentì nulla, tornò indietro.

– La mamma morì quando io nacqui – ella disse, in tono calmo. – Conosco soltanto il suo ritratto, che è da basso.

Vidi ieri che lo guardavate. Indovinaste di chi era?

Dissi di sì, perché le somigliava tanto.

– Anche papà dice così – osservò Agnese, compiaciuta.

– Sentite, ecco papà che viene.

Il suo tranquillo volto s’irradiò tutto nell’atto ch’ella si 409

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