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Consentii a questa proposta, non sentendomi in grado di suggerire altro.

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David Copperfield

– Certo, senza patate – disse il cameriere, con un sorriso insinuante e la testa da un lato – i giovanetti, in generale, sono stufi di patate.

Gli ordinai col mio tono più grave di ordinare una costoletta di vitello con patate, e di domandare al padrone se vi fossero lettere per il signor Trotwood Copperfield...

Sapevo che non ce ne erano e non ce ne potevano essere, ma pensavo che mi conferiva dignità aver l’aria di attenderle.

Presto egli tornò per dire che non ce ne erano (cosa che mi sorprese molto) e cominciò a stendere la tovaglia per il mio desinare su una tavola presso al fuoco. In quell’atto mi chiese che volessi bere; e dopo che gli ebbi risposto mezza pinta di vino di Xères, dové credere, penso, che quella fosse l’occasione favorevole di trarre quella misura di vino dai fondi avanzati e muffiti di parecchie bottiglie. E non è un’ipotesi la mia, perché mentre leggevo il giornale, l’osservai dietro un basso tramezzo di legno, che costituiva il suo appartamento privato, versar affaccendatissimo in uno il contenuto di un gran numero di quei vasi, come uno speziale che prepa-rasse una miscela. Quando venne il vino, mi parve svanito; e certamente conteneva più briciole di pane di quante se ne potessero onestamente concedere a un vino straniero genuino; ma fui così vile da berlo, e da non dire una parola.

Sentendomi poi in una gioiosa disposizione di spirito 508

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(dal che argomento che l’ubbriachezza in certi momenti non sia sempre spiacevole) risolsi d’andare a teatro.

Scelsi il teatro del Covent Garden; e ivi dal fondo d’un palco nel centro vidi Giulio Cesare e la nuova pantomi-ma. Mi fece un delizioso effetto aver dinanzi vivi tutti quei nobili romani, che entravano e uscivano per mio speciale divertimento, e non erano più i gravi soggetti di compiti che erano stati per me a scuola. Ma la realtà e il mistero dell’intera rappresentazione, l’influenza su di me della poesia, dei lumi, della compagnia, dei prodi-giosi cambiamenti di splendide e fulgide scene, erano così abbaglianti, e m’aprirono tali sconfinate regioni di piacere, che quando a mezzanotte uscii alla pioggia fuori, mi parve di precipitare dalle nuvole, dove avevo vissuto per secoli una vita romanzesca, giù in un mondo miserabile e fangoso, che urlava, schizzava pillacchere, accendeva fiaccole, strepitava con le scarpe, lottava con gli ombrelli, urtava e travolgeva con le vetture da nolo.

Ero uscito da un’altra porta, e stetti fermo nella via, come se fossi veramente straniero sulla terra; ma le spinte e le gomitate poco cerimoniose che mi pigliavo nei fianchi, mi fecero riprendere la via dell’albergo, dove entrai rimuginando le splendide visioni alle quali avevo assistito; e dove fino all’una, dopo aver mangiato delle ostriche e bevuto un po’ di birra, me ne stetti sempre con quelle visioni innanzi, contemplando il fuoco della sala del caffè.

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Ero così pieno della rappresentazione, e del passato –

perché essa era, in un certo modo, come una fulgida trasparenza, a traverso la quale vedevo svolgersi la mia vita anteriore – che non so quando la persona d’un bel giovanotto, vestito con una negligenza elegante che io ho ragione di ricordare, divenne ai miei occhi una figura concreta. Ma ricordo che m’accorsi della sua compagnia, senza averlo veduto entrare – mentre sedevo ancora meditabondo accanto al fuoco della sala del caffè.

Finalmente, mi levai per andare a letto, con gran sollievo del cameriere assonnato, che era stato assalito dal nervoso alle gambe, e lì, oltre il tramezzo, le percoteva, le assoggettava a ogni specie di contorsioni. Nell’andar verso la porta, passai accanto al giovane ch’era entrato non sapevo quando, e lo vidi distintamente. Mi voltai subito, tornai indietro, guardai di nuovo. Egli non mi ri-conosceva, ma io immediatamente lo riconobbi.

In un altro momento forse non avrei avuto la fiducia o l’ardire di parlargli, e avrei rimandato la cosa al giorno dopo, e avrei potuto perderlo. Ma nelle condizioni del mio spirito, che era ancora sotto il fascino della rappresentazione, la protezione accordatami in passato da quel giovane mi parve così degna di gratitudine, e il bene che gli avevo voluto mi traboccò dal petto con tanta freschezza e spontaneità, che diedi immediatamente un passo verso di lui, e, col cuore che mi batteva forte, dissi:

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– Steerforth, non mi riconosci?

Egli mi guardò – proprio com’era solito guardare a volte

– ma non mi riconobbe ancora.

– Ho paura che tu ti sia dimenticato di me – dissi.

– Mio Dio! – esclamò improvvisamente. – Il piccolo Copperfield!

Lo afferrai per tutte e due le mani, e non potei lasciarle andare. Ma se non avessi avuto vergogna, e non avessi avuto timore di dispiacergli, gli sarei saltato al collo piangendo.

– Come son contento, come son contento! Mio caro Steerforth, come son felice di rivederti!

– E anch’io son contento di riveder te – egli disse, stringendomi cordialmente le mani. – Su, Copperfield, mio caro, non ti commuovere tanto!

Eppure egli, era contento, mi parve, di veder quanta gioia sentissi per quell’incontro.

M’asciugai le lagrime, che m’ero sforzato invano di trattenere, feci le viste di riderne, e ci sedemmo l’uno accanto all’altro.

– Ebbene, come ti trovi qui? – disse Steerforth, battendomi sulla spalla.

– Son arrivato oggi con la diligenza di Canterbury.

Sono stato adottato da mia zia che abita laggiù in cam-511

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pagna, e ho appunto terminato gli studi. E tu come ti trovi qui, Steerforth?

– Ebbene, io sono ciò che si dice uno studente di Oxford – egli rispose; – vale a dire che mi vado a seccare a morte periodicamente laggiù... e ora vado a casa, da mia madre. Tu sei un bel ragazzo, Copperfield. Proprio come eri una volta, ora che ti guardo. Tale e quale come una volta!

– Io ti ho riconosciuto immediatamente – dissi – anche perché tu sei più facilmente riconoscibile.

Sorrise, mentre si ficcava le dita tra i folti riccioli della chioma, e riprese allegramente:

– Sì, come mi vedi, sono in pellegrinaggio filiale. Mia madre abita un po’ lontano dalla città; e perché le strade sono pessime e la casa è piuttosto noiosa, mi son fermato qui stasera. È da cinque o sei ore che sono in città, e le ho passate borbottando e sonnecchiando a teatro.

– Anch’io sono stato a teatro – dissi. – Al Covent Garden. Che magnifica rappresentazione, Steerforth!

Steerforth si mise a ridere cordialmente.

– Mio caro piccolo Davy – disse, battendomi sulla spalla – sei una vera margheritina. La margheritina dei campi, la mattina, è meno fresca di te. Anch’io sono stato al Covent Garden, e non ho visto mai uno spettacolo più stupido. Ehi, qui!

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Are sens