Dopo pranzo, ci recammo ancora di sopra, e tutto si svolse come il giorno precedente. Agnese portò i bicchieri e le bottiglie nello stesso angolo, e il signor Wickfield si indugiò a bere, e molto. Agnese, seduta accanto a lui, sonò il pianoforte, e lavorò, e conversò, e giocò a domino con me. All’ora consueta fece il tè; e dopo, quando portai lì i miei libri, li esaminò, e mi mostrò ciò 413
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che ne sapeva (che non era poco, benché ella dicesse altrimenti), e qual fosse il miglior modo d’imparare a in-tenderli. La riveggo ancora, con le sue maniere modeste, calme, ordinate; riascolto la sua bella e tranquilla voce, mentre scrivo queste parole. L’effetto benefico che ella eserciterà su di me più tardi, comincio già a sentirlo nel segreto del cuore. Io amo l’Emilietta, e non Agnese –
non nello stesso modo, intendo; – ma sento che dov’è questa, è la pace, la bontà e la sincerità; e che la blanda luce della finestra dipinta, veduta in chiesa lungo tempo fa, l’avvolge sempre, e avvolge me pure quando le sono accanto, e avvolge ogni cosa intorno.
Giunto il tempo di andare a letto, ella ci lasciò, e io stesi la mano al signor Wickfield, per ritirarmi anch’io. Ma egli mi trattenne, dicendomi:
– Ti piace di rimaner con noi, Trotwood, o d’andare altrove?
– Di rimanere – risposi subito.
– Certo?
– Se non vi dispiace, se posso!
– Temo che la vita che meniamo qui, ragazzo mio, debba esserti uggiosa – egli disse.
– Non più uggiosa per me che per Agnese, signore. Per nulla affatto uggiosa.
– Che per Agnese! – ripeté andando pianamente verso il 414
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caminetto, e appoggiandovisi di contro. – Che per Agnese!
Egli aveva bevuto tanto vino quella sera, credo, che aveva gli occhi iniettati di sangue. Non che io potessi vederli in quel momento, perché li teneva abbassati e ripa-rati dalla mano; ma li avevo osservati pochi istanti prima.
– Mi domando – egli mormorò – se la mia Agnese non sia stanca di me. Io invece non mi stancherei mai di lei!
Ma è diverso, assolutamente diverso.
Parlava a sé stesso, non a me; così non dissi nulla.
– Una vecchia casa uggiosa – egli disse – e una vita monotona; ma io debbo sentirmela vicina; debbo tenermela vicina. Se il pensiero che io possa morire e lasciare la mia diletta, o che la mia diletta possa morire e lasciarmi, mi sorge innanzi come uno spettro a rattristar le mie ore di felicità, non so far altro che annegarlo nel... Non disse la parola; ma andando lentamente verso il suo posto, e facendo meccanicamente l’atto di versare il vino dalla bottiglia vuota, la depose di nuovo, e si rimise a passeggiare.
– Se è un’angoscia pensarci, quando essa è qui – egli disse – che sarebbe, se fosse lontana? No, no, no. Non posso pensarci.
S’appoggiò contro il caminetto, e rimase assorto nei suoi pensieri così a lungo, che non seppi decidermi tra 415
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l’arrischiare di disturbarlo andandomene, e il rimanermene tranquillo dov’ero, aspettando che uscisse da quella fantasticheria. Finalmente si riscosse, e si guardò intorno, finché non incontrò i miei occhi.
– Rimaner con noi, Trotwood, eh? – disse nel suo tono solito, e come per rispondere a qualche cosa che io avessi detto in quel punto. – Ne sono lieto. Tu ci farai compagnia. È bene averti qui. Bene per te, bene per Agnese, bene per tutti.
– Per me, certo, signore – dissi. – Io sono felice d’essere qui.
– Sei un bravo ragazzo! – disse il signor Wickfield. –
Finché sarai contento di star qui, ci starai. – E mi strinse la mano, e mi batté sulla spalla, e mi disse che la sera, dopo che Agnese si fosse ritirata, sarei potuto andare, avendo da far qualche cosa o desiderando legger per mio diletto, o semplicemente avendo bisogno di compagnia, liberamente giù nella sua stanza. Lo ringraziai per la sua benevolenza; e siccome egli si recava da basso subito dopo, ed io non ero stanco, andai giù anch’io con un libro in mano, ad approfittare, per una mezz’ oretta, del suo permesso.
Ma, vedendo un lume nella stanzetta tonda, e sentendomi immediatamente attratto verso Uriah Heep, che esercitava su di me una specie di fascino, andai colà invece.
Trovai Uriah sprofondato in un grosso volume e in ap-416
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parenza così assorto, da seguire con lo scarno indice della destra ogni riga da leggere, lasciando delle tracce d’umido sulla pagina (n’ero vivamente convinto) come una lumaca.
– Così tardi stasera lavorate? – io dico.
– Sì, signorino Copperfield – dice Uriah.
Salendo sull’alto sgabellino di contro, per parlargli con più agio, notai ch’egli non aveva qualcosa che somigliasse alla forma d’un sorriso: soltanto, per farne le veci, poteva allargare la bocca e scavar due grosse grinze sulle guance, una per lato.
– Non lavoro per l’ufficio, signorino Copperfield – aggiunse Uriah.
– E a che lavorate, allora? – chiesi.