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– e sarà in pensiero; perché, sebbene molto modesti, noi ci vogliamo un gran bene, signorino Copperfield. Se voleste venire a trovarci, in qualche pomeriggio, per bere una tazza di tè nella nostra modesta dimora, la mamma sarebbe, come me, orgogliosa della vostra compagnia.

Dissi che sarei stato contento di andare.

– Grazie, signorino Copperfield – rispose Uriah, ri-ponendo il libro nello scaffale. – Vi fermerete, credo, 420

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per qualche tempo qui, signorino Copperfield?

Dissi che credevo che sarei rimasto lì, finché fossi andato a scuola.

– Oh, veramente! – esclamò Uriah. – Credo che finirete col diventar socio dello studio, signorino Copperfield!

Protestai che non avevo uno scopo simile, e che nessuno ci aveva pensato minimamente; ma Uriah insistette col rispondere blandamente a tutte le mie assicurazioni:

«Oh sì, signorino Copperfield, credo che certo sarà così», e, «Oh veramente, signorino Copperfield, credo che certo sarà così!» una volta, e due, e sempre. Pronto finalmente per uscire, mi chiese se m’avrebbe disturbato spegnendo il lume, e alla mia risposta «no», immediatamente lo spense. Dopo avermi strette le dita – al buio, la sua mano dava la sensazione d’un pesce – socchiuse appena la porta di strada, ne sgusciò fuori, e la chiuse, lasciandomi a indovinar la mia strada a tentoni: cosa che mi costò molta fatica e una caduta contro il suo sgabello. Per ciò, forse, me lo sognai metà della notte: sognai, fra l’altro, che egli avesse varato la casa del signor Peggotty e l’avesse lanciata in una spedizione di pirati, con una bandiera nera all’albero maestro e l’iscrizione: «La Pratica di Tidd». Sotto quest’insegna diabolica egli portava l’Emilietta e me ad annegare nei mari di Spagna.

Il giorno dopo, andando a scuola, avevo perso un po’ del 421

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mio impaccio, e molto più il giorno seguente, e così via gradatamente, tanto che in una quindicina di giorni mi sentii perfettamente ad agio, e felice, fra i miei nuovi compagni. Ero ancora maldestro nei giuochi, e indietro negli studi; ma la pratica mi avrebbe fatto progredire nei giuochi e il lavoro assiduo negli studi. Così, mi misi a giocare con attenzione e a studiare con una grande volontà, e me ne vennero gran lodi. E, in poco tempo, il periodo Murdstone e Grinby mi parve così estraneo e remoto che appena ci credevo più; mentre la nuova vita mi diventò così familiare, che mi parve non ne avessi mai condotta una diversa.

Quella del dottor Strong era un’ottima scuola; diversa da quella del signor Creakle come il bene dal male.

Era seriamente e dignitosamente retta da un sano sistema: in tutto si chiamava in causa l’onore e la buona fede dei ragazzi; con la intenzione dichiarata di tener conto di quelle qualità, se non se ne mostrano indegni. E il sistema dava risultati meravigliosi. Sentivamo tutti d’avere una parte nel reggimento della scuola, e nel sostener-ne l’onore e la dignità. Per conseguenza eravamo tutti vivamente affezionati all’istituto – io fra gli altri, e non seppi mai, in tutto il tempo che ci rimasi, che qualcuno dimostrasse di non esserlo – e studiavamo pieni di buona volontà, e col desiderio di fargli onore. Avevamo delle magnifiche partite di giuochi, fuori delle ore di scuola, e molta libertà; ma anche liberi ci comportavamo bene, e in città ricordo che di noi si parlava con lode, e 422

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di rado compromettevamo, con la nostra condotta e i nostri modi, la reputazione del dottor Strong, e dell’istituto del dottor Strong.

Alcuni degli allievi meno giovani erano a pensione in casa del dottore, e per loro mezzo appresi, di seconda mano, alcuni particolari della storia del dottore. Come non fosse ancora trascorso un anno da che egli aveva sposato la bella signora da me veduta nello studio, e che l’aveva sposata per amore, perché ella non aveva un soldo, e aveva un mucchio di parenti poveri (così dicevano i miei compagni) pronti ad assediare il dottore fuori di casa o in casa. Appresi inoltre che l’atteggiamento ri-flessivo del dottore doveva attribuirsi al suo continuo af-fannarsi nella ricerca delle radici greche: cosa che, nella mia ingenuità e nella mia ignoranza, supposi fosse una mania botanica del dottore, anche perché egli guardava sempre per terra quando passeggiava, sin che non seppi che quelle erano radici di parole, da servire a un nuovo dizionario da lui vagheggiato. Adams, il nostro caposquadra, che aveva inclinazione per le matematiche, aveva fatto un calcolo, appresi, del tempo occorrente al lavoro del dizionario, secondo il progetto del dottore, e la velocità del dottore. Calcolava che si sarebbe potuto finire in milleseicentoquarantatré anni, a contare dall’ultimo genetliaco del dottore, o dal suo sessantaduesimo anno d’età.

Ma il dottore era l’idolo di tutta la scuola – se fosse sta-423

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to altrimenti, sarebbe stata una pessima scuola – perché egli era il miglior uomo del mondo, con una fede ingenua, che avrebbe commosso perfino i cuori di pietra delle urne del muro di cinta. Mentre egli passeggiava su e giù in quella parte del cortile presso la cancellata, seguito dalle cornacchie e dai corvi sbandati che se lo ammiccavano maliziosamente, come per dirsi che nelle faccende del mondo ne sapevano molto più di lui, se un vagabondo qualunque poteva avvicinarsi tanto da attrar l’attenzione di lui su una frase di un racconto di miseria, quel vagabondo se n’andava ben provveduto almeno per un paio di giorni. E la cosa era così nota nell’istituto, che gl’insegnanti e i capisquadra si affannavano alle cantonate a sbarrare il passo a quei bricconi, e perfino a saltar dalle finestre per cacciarli dal cortile, prima che fossero stati scorti dal dottore: e questo a volte si svolgeva a pochi passi da lui, mentre trotterellava su e giù, senza ch’egli si accorgesse di nulla. Fuori dei suoi domini, e indifeso, era assolutamente una pecora per i to-satori. Si sarebbe tolto le uose per darle a chi gli chiedeva qualche soccorso. Infatti, correva fra noi un aneddoto (non so, e non seppi mai da chi riferito la prima volta; ma l’ho creduto per tanti anni, che son più che sicuro della sua autenticità), che in una rigidissima giornata d’inverno, egli avesse dato veramente un paio di gamba-li di lana a una mendicante, la quale, mostrando di porta in porta un bel bambino involto in quegli indumenti, universalmente noti come appartenenti al dottore, fu ca-424

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gione di qualche scandalo nei dintorni della cattedrale.

La leggenda aggiungeva che il solo a non riconoscerli fosse lo stesso dottore, il quale, quando furono messi in mostra, breve tempo dopo, sulla porta di una botteguccia di non molto buona reputazione, dove simile mercanzia era accettata in cambio di ginepro, fu più d’una volta veduto maneggiarli con segni di approvazione, come in atto d’ammirazione per qualche curiosa novità del modello, di gran lunga migliore di quello da lui adottato.

Era bello vedere il dottore con la giovane e graziosa moglie. Egli aveva una maniera delicatamente paterna di mostrarle il suo affetto, che sembrava, per sé sola, rivelare la bontà dell’uomo. Li vedevo spesso passeggiare nel giardino presso le spalliere delle pesche, e a volte mi fu dato di osservarli più da vicino nello studio o nel salotto. Mi sembrava ch’ella avesse molto a cuore il dottore, e che gli volesse un gran bene, benché non la credessi ardentemente interessata nel dizionario, del quale il dottore portava sempre in tasca e nella fodera del cappello voluminosi frammenti per mostrarli e spiegarli a lei a suo agio durante la passeggiata.

Vedevo spesso la signora Strong, che mi si mostrava sempre gentile, sia perché m’aveva preso in simpatia fin dalla mattina della mia presentazione al dottore, sia perché voleva molto bene ad Agnese, e andava e veniva con frequenza in casa nostra. Ma mi parve di notare che 425

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ci fosse fra lei e il signor Wickfield (che mi sembrava ella temesse) una certa riserva, un certo imbarazzo, che non si dileguava mai. Quando ella si tratteneva da noi la sera, rifiutava sempre d’esser riaccompagnata a casa da lui, e usciva sempre con me, invece. E a volte, mentre correvamo allegramente a traverso il cortile della cattedrale, non sperando d’incontrar nessuno, incontravamo Jack Maldon, ch’era sempre sorpreso di vederci.

La madre della signora Strong era una donna che mi divertiva molto. Si chiamava la signora Markleham; ma i ragazzi le avevano dato il nome di Vecchio Soldato, per la sua dignità di comandante in capo e la sua abilità tat-tica nello schierare le forze dei parenti contro il dottore.

Piccola, dagli occhi acuti, usava portare, quando s’abbi-gliava, un eterno cappellino ornato di fiori artificiali e di due farfalle artificiali, che si libravano sui fiori. Si diceva fra noi che quel cappellino fosse venuto di Francia, e potesse solo aver la sua origine in quell’ingegnosa nazione; ma il fatto sta che appariva la sera dovunque appariva la signora Markleham; che era portato alle riunio-ni amichevoli in un paniere indiano; che le farfalle avevano il dono di tremare continuamente; e che, come api affaccendate, traevan il maggior vantaggio dalle ore di sole a spese del dottore.

Potei osservare a mio agio il Vecchio Soldato – se così posso chiamarla senza irriverenza – una sera diventata memorabile per un fatto che riferirò. C’era, in quell’oc-426

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casione della partenza di Jack Maldon per le Indie, dove andava come allievo ufficiale o quel qualche cosa che il signor Wickfield era finalmente riuscito a ottenergli, ricevimento in casa del dottore. L’avvenimento coincide-va anche col genetliaco del dottore. Noi avevamo avuto vacanza, gli avevamo nella mattinata offerto dei doni, e fattogli un discorso per bocca del Caposquadra, applau-dendo e gridando fino a diventar rauchi e fino a fargli versare delle lagrime. E poi la sera, il signor Wickfield, Agnese e io, ci recammo da lui a prendere il tè nella nostra qualità d’amici.

Jack Maldon vi s’era già installato, prima di noi. La signora Strong, vestita di bianco, con nastri color ciliegia, era occupata al pianoforte quando noi entrammo, e lui era chinato su di lei a voltare le pagine. Mi parve che il roseo e il bianco del colorito di lei non fossero fiorenti come il solito, quand’ella si volse; ma appariva molto leggiadra, meravigliosamente leggiadra.

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