– disse la madre.
Quando ella rispose che ricordava d’averlo ancora pochi momenti prima, ma che non metteva conto di cercarlo, era così rossa di fuoco in viso, che mi domandai come mai avesse potuto sembrarmi bianca.
Si cercò di nuovo, nondimeno, ma non si trovò nulla.
Ella supplicò che si lasciasse andare, che non ci affan-nassimo a cercare; ma, a intervalli, la caccia continuò: finché la signora Strong non si fu completamente rimessa, e la compagnia non si sciolse.
Ci avviammo lentamente a casa, il signor Wickfield, Agnese e io: Agnese e io, ammirando la luce della luna, e il signor Wickfield quasi sempre con gli occhi al suo-437
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lo. Quando, finalmente, giungemmo innanzi alla nostra porta, Agnese s’accorse di aver dimenticato la borsetta in casa del dottore. Ben lieto di poterla servire, tornai di corsa indietro a pigliarla.
La sala da pranzo, dove la borsa era stata lasciata, era deserta e buia. Ma essendo aperta una porta di comunicazione fra quella e lo studio del dottore, ch’era illuminato, entrai per dire ciò che volevo e per avere una candela.
Il dottore sedeva nella poltrona accanto al fuoco, e la giovane moglie stava su uno sgabellino ai suoi piedi. Il dottore leggeva, con un sorriso di compiacenza, qualche spiegazione manoscritta o parte del disegno del suo in-terminabile dizionario; ed ella aveva gli occhi su di lui.
Ma con un’espressione che io non le avevo mai veduta.
Il suo viso era ancor bello, ma così cinereo, così lontano dal presente, così pieno d’un selvaggio, fantastico orrore di non so che. Aveva gli occhi spalancati, e i capelli bru-ni le cadevano in due ricche trecce sulle spalle e sulla veste bianca, priva del nastro sparito. Non so dire che esprimesse quel suo sguardo, che ricordo distintamente.
Neanche ora che ho un giudizio più maturo, so dire che esprimesse. Pentimento, umiliazione, vergogna, orgoglio, amore e fedeltà... vedevo tutti questi sentimenti, e in tutto scorsi l’orrore di non so che.
Il mio ingresso e la mia domanda la scossero. Scossero anche il dottore che, quando rientrai a rimetter la cande-438
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la dove l’avevo presa, stava carezzando, con un gesto paterno, i capelli della moglie, dicendole ch’egli era un bruto crudele a tenerla lì e ad annoiarla con le sue carte nell’ora ch’ella sarebbe andata più volentieri a letto.
Ma ella lo pregò, insistentemente, di lasciarla stare... Per sentirsi sicura (la sentii sussurrare delle frasi interrotte) della fiducia di lui. E, voltandosi di nuovo al marito, dopo che m’ebbe seguito alla porta con un’occhiata, gli abbracciò le ginocchia, e si mise a guardarlo, mentr’egli ripigliava la lettura, con la stessa espressione, un po’ più calma.
N’ebbi una grande impressione, e me ne ricordai un bel pezzo dopo, come avrò a suo tempo occasione di narrare.
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XVII.
UN INCONTRO
Mi sembra che dal momento della mia fuga non mi sia più occorso di far menzione di Peggotty; ma, naturalmente, non appena mi fui stabilito a Dover, le scrissi una lettera, e poi, allorché mia zia m’ebbe assunto formalmente sotto la sua protezione, gliene scrissi un’altra più lunga coi più minuti particolari d’ogni circostanza.
Al mio ingresso nella scuola del dottor Strong, le scrissi ancora, intrattenendola particolarmente della mia perfetta soddisfazione e di tutte le speranze che s’erano accese in me. Spendendo il denaro regalatomi dal signor Dick non avrei sentito lo stesso piacere che provai restituendo per posta a Peggotty, in quella stessa lettera, la mezza ghinea da lei prestatami; e soltanto allora le narrai il fatto del giovinastro dall’asino e dal carretto.
A quelle comunicazioni Peggotty rispose con la stessa prontezza, se non con la stessa concisione, dell’impiegato d’un commerciante. I suoi massimi poteri d’espressione (che sulla carta non erano grandi) si esaurirono nel tentativo di scrivere ciò che sentiva sull’argomento del mio viaggio. Quattro pagine di principi di frasi incoerenti e riboccanti d’interiezioni, e che non concludevano 440
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che con macchie d’inchiostro, non furono sufficienti a confortarla in qualche modo. Ma le macchie d’inchiostro mi parlarono meglio d’un abile discorso; perché mi dimostravano – e che avrei potuto desiderare di più? –
che Peggotty scrivendomi aveva pianto.
Indovinai, senza molta fatica, ch’ella non poteva ancora adattarsi all’idea di trattar gentilmente mia zia. Dopo una così lunga prevenzione ostile, parlava di lei brevis-simamente. Non si conoscono mai bene le persone, ella scriveva; ma pensare che la signora Betsey dovesse essere così diversa da ciò che s’era creduto che fosse, era una lezione! Questa era la sua parola. Si vedeva ch’ella aveva ancora paura della signora Betsey, perché le mandava degli ossequi molto timidi; e aveva paura anche di me, perché, a giudicare dalle sue ripetute allusioni alla somma occorrente al viaggio per Yarmouth, che avrei potuto, volendo, ottenere da lei immediatamente, affac-ciava il dubbio che io meditassi di nuovo di darmi alla fuga.
Ella mi diede una notizia che mi commosse profondamente: che s’erano venduti, cioè, i mobili di casa mia, e che il signore e la signorina Murdstone se n’erano andati, e la casa era stata chiusa, per essere poi appigionata o venduta. Dio sa quanto poco spazio vi avevo occupato, dopo il loro ingresso; ma mi doleva pensare al totale abbandono della mia antica e cara dimora; alle erbacce che crescevano alte nel giardino, e alle foglie cadute che 441
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riempivano e marcivano nei viali. Immaginavo che intorno ad essa, solitaria in quella solitudine, urlassero i venti invernali, che la pioggia fredda la flagellasse sui vetri delle finestre, che la luna disegnasse degli spettri sulle pareti delle stanze vuote. Ripensavo alla tomba nel cimitero, sotto l’albero; e mi sembrava che anche la casa fosse morta, ora, e che quanto mi ricordava mio padre e mia madre si fosse interamente dileguato.
Non v’erano altre notizie nella lettera di Peggotty. Barkis era un buon marito, ella diceva, benché sempre un po’ tirato; ma tutti abbiamo i nostri difetti, e lei ne aveva tanti (io non ho mai saputo quali fossero). Il marito mi mandava i suoi ossequi, e la mia piccola camera da letto era sempre pronta per me. Il pescatore Peggotty stava bene, e Cam stava bene, e la signora Gummidge così così; e l’Emilietta non mi mandava i suoi saluti, ma aveva detto che Peggotty poteva mandarmeli, se le garbava.
Tutte queste comunicazioni partecipai debitamente a mia zia, tacendo soltanto dell’Emilietta, per la quale sentivo istintivamente ch’ella non avrebbe mostrata molta simpatia. Mentre ero ancora principiante nella scuola del dottor Strong, ella fece parecchie corse a Canterbury per vedermi, e sempre in ore intempestive: con lo scopo, immagino, di cogliermi di sorpresa. Ma, trovandomi occupato a studiare, e ben classificato, e sentendo dir da tutti che progredivo molto, subito interruppe le sue visite. Io andavo fino a Dover a trovarla 442
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