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Lente onde di ferraglia si rompevano in una pesante risacca che ne copriva e scopriva i bordi.

A quel suono si univano gli ululati e i guaiti disperati di un branco di cani, un coro lugubre e dissonante che non attenuava il fragore del ferro ma lo amplificava.

Ho guardato fuori dalla finestra. Una mietitrebbia avanzava sferragliando sul crinale di una collina bagnato dai raggi della luna. Assomigliava a una gi-gantesca cavalletta di metallo, con due piccoli occhi tondi e luminosi e una bocca larga fatta di lame e punte. Un insetto meccanico che divorava grano e cacava paglia. Lavorava di notte perche di giorno era troppo caldo. Era lei che faceva il rumore del mare.

Gli ululati sapevo da dove venivano.

Dal canile del padre del Teschio. Italo Natale aveva costruito dietro casa una baracca di lamiera e ci teneva chiusi i cani da caccia. Stavano sempre là dentro, estate e inverno, dietro una rete metallica. Quando la mattina il padre del Teschio gli portava da mangiare, abbaiavano.

Quella notte, chissà perché, avevano cominciato a ululare tutti insieme.

Ho guardato verso la collina.

Papà era lì. Aveva portato la fettina di mia sorella al bambino e per questo aveva fatto finta di partire e per questo aveva una borsa, per nasconderla dentro.

Prima di cena avevo aperto il frigorifero e la carne non c'era più.

"Mamma, dov'è la fettina?

Mi aveva guardato stupita. "Ora ti piace la carne?

"Sì.

"Non c'è più. Se l'è mangiata tuo padre.

Non era vero. L'aveva presa per il bambino.

Perché il bambino era mio fratello.

Come Nunzio Scardaccione, il fratello maggiore di Salvatore. Nunzio non era un pazzo cattivo, ma io non lo potevo guardare. Avevo paura che mi mischiava la sua follia. Nunzio si strappava i capelli con le mani e se li mangiava. In testa era tutto buchi e croste e sbavava. Sua madre gli metteva un

cappello e i guanti così non si strappava i capelli, ma lui aveva cominciato a mordersi a sangue le braccia. Alla fine lo avevano preso e lo avevano portato al manicomio. Io ero stato felice.

Poteva essere che il bambino nel buco era mio fratello, ed era nato pazzo come Nunzio e papà lo aveva nascosto lì, per non farci spaventare me e mia sorella. Per non spaventare i bambini di Acqua Traverse.

Forse io e lui eravamo gemelli. Eravamo alti uguale e sembrava che avevamo la stessa età.

Quando eravamo nati, mamma ci aveva presi tutti e due dalla culla, si era seduta su una sedia e ci aveva messo il seno in bocca per darci il latte. Io avevo cominciato a succhiare ma lui, invece, le aveva morso il capezzolo, aveva cercato di strapparglielo, il sangue e il latte le colavano dalla tetta e mamma urlava per casa: "E' pazzo! E' pazzo! Pino, portalo via! Portalo via!

Uccidilo, che è pazzo.

Papà lo aveva infilato in un sacco e lo aveva portato sulla collina per am-mazzarlo, lo aveva messo a terra, nel grano, e doveva pugnalarlo ma non ce l'aveva fatta, era sempre figlio suo, e allora aveva scavato un buco, ce lo aveva incatenato dentro e ce lo aveva cresciuto.

Mamma non sapeva che era vivo.

Io sì.

4.

Mi sono svegliato presto. Sono rimasto a letto mentre il sole cominciava ad accendersi. Poi non ce l'ho fatta più a starmene ad aspettare. Mamma e Maria dormivano ancora. Mi sono alzato, mi sono lavato i denti, ho riempito la cartella con del formaggio e del pane e sono uscito.

Avevo deciso che di giorno sulla collina non c'era pericolo, solo di notte succedevano le cose brutte.

Quella mattina erano apparse le nuvole. Scorrevano veloci su un cielo stinto proiettando macchie scure sui campi di grano e si tenevano stretta la loro pioggia portandola chissà dove.

Sfrecciavo nella campagna deserta, sulla Scassona, diretto alla casa.

Se trovavo nel buco anche un pezzettino della fettina voleva dire che quel bambino era mio fratello.

Ero quasi arrivato quando sull'orizzonte è apparso un polverone rosso. Basso. Veloce. Una nuvola che avanzava nel grano. Il polverone che può fare una macchina su una strada di terra cotta dal sole. Era distante ma ci avrebbe messo poco a raggiungermi. Già sentivo il rombo del motore.

Arrivava dalla casa abbandonata. Quella strada portava solo li. Un'automo-bile ha curvato piano e mi si è messa di fronte.

Non sapevo che fare. Se tornavo indietro mi avrebbe raggiunto, se continuavo mi avrebbe visto.

Dovevo decidermi in fretta, si stava avvicinando.

Forse mi aveva già visto. Se non mi aveva visto era solo per la nube rossa che sollevava.

Ho girato la bicicletta e ho cominciato a pedalare, cercando di allontanarmi il più veloce possibile. Era inutile. Più spingevo sui pedali, più la bicicletta si impuntava, si sbilanciava e si rifiutava di andare avanti. Mi giravo e alle mie spalle il polverone cresceva.

Nasconditi, mi sono detto.

Ho sterzato, la bicicletta si è impennata su un

sasso e sono volato come un crocifisso nel grano.

La macchina era a meno di duecento metri.

La Scassona stava sul bordo della strada. Ho af-

ferrato la ruota davanti e l'ho trascinata accanto a me. Mi sono appiccicato a terra. Senza respirare.

Senza muovere un muscolo. Chiedendo a Gesù Bambino che non mi vedes-sero.

Gesù Bambino mi ha accontentato.

Steso tra le piante, con i tafani che banchettavano sulla mia pelle e le mani immerse nelle zolle infuocate, ho visto sfilarmi davanti una 127 marrone.

La 127 di Felice Natale.

Felice Natale era il fratello maggiore del Teschio. E se il Teschio era cattivo, Felice lo era mille volte di più.

Felice aveva vent'anni. E quando stava ad Acqua Traverse la vita per me e gli altri bambini era un inferno. Ci picchiava, ci bucava il pal one e ci rubava le cose.

Era un povero diavolo. Senza un amico, senza una donna. Uno che se la prendeva con i più piccoli, un'anima in pena. E questo si capiva. Nessuno a vent'anni può vivere ad Acqua Traverse, a meno di fare la fine di Nunzio Scardaccione, lo strappacapelli. Felice stava ad Acqua Traverse come una ti-gre in gabbia. Si aggirava tra quelle quattro case infuriato, nervoso, pronto a darti il tormento. Fortuna che ogni tanto se ne andava a Lucignano. Ma anche li non si era fatto degli amici.

Quando uscivo da scuola lo vedevo seduto da solo su una panchina della piazza.

Are sens