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In quell'anno la moda erano i pantaloni a zampa di elefante, le magliette strette e colorate, il montone, i capelli lunghi. Felice no, i capelli se li tagliava corti e se li tirava indietro con la brillantina, si rasava perfettamente e si ve-stiva con giacche militari e pantaloni mimetici. E si legava un fazzoletto intorno al collo. Girava su quella 127, gli piacevano le armi e raccontava di aver fatto il parà a Pisa e che si era gettato dagli aerei. Ma non era vero. Tutti sa-

pevano che aveva fatto il militare a Brindisi. Aveva il viso affilato di un barra-cuda e i denti piccoli e separati come quelli di un coccodrillo appena nato.

Una volta ci aveva detto che li aveva così perché erano ancora i denti da latte.

Non li aveva mai cambiati. Se non apriva la bocca era quasi un bel ragazzo, ma se spalancava il forno, se rideva, facevi due passi indietro. E se ti beccava a guardargli i denti erano dolori.

Poi un giorno benedetto, senza dire niente a nessuno, era partito.

Se chiedevi al Teschio dov'era andato suo fra-

tello rispondeva: "Al Nord. A lavorare.

Questo ci bastava e ci avanzava.

Ora invece era rispuntato come un'erbaccia velenosa. Sulla sua 127 color merda sciolta. E scendeva giù dalla casa abbandonata.

Ce l'aveva messo lui il bambino nel buco. Ecco chi ce l'aveva messo.

Nascosto tra gli alberi, ho controllato che nella valletta non ci fosse nessuno.

Quando sono stato sicuro di essere solo, sono uscito dal bosco e sono entrato nella casa passando per la solita chiostrina. Oltre i pacchi di pasta, le bottiglie di birra, la pentola con le mele, per terra c'erano un paio di scatolette di tonno aperte. E da una parte, arrotolato, un sacco a pelo militare.

Felice. Era suo. Me lo vedevo, imbustato nel suo sacco, tutto contento, che si mangiava il tonno.

Ho riempito una bottiglia d'acqua, ho preso la corda dallo scatolone e l'ho portata fuori, l'ho legata al braccio della gru, ho scostato la lastra e il materasso e ho guardato di sotto.

Era raggomitolato come un porcospino nella coperta marrone.

Non avevo voglia di scendere là dentro, ma dovevo scoprire se c'erano i resti della fettina di mia sorella. Anche se avevo visto Felice arrivare dalla collina non riuscivo a togliermi dalla testa che quel bambino poteva essere mio fratello.

Ho tirato fuori il formaggio e gli ho domandato: "Posso venire? Sono quello dell'acqua. Ti ricordi? Ti ho portato da mangiare. La caciotta. E' buona la caciotta. Meglio, mille volte meglio della fettina. Se non mi attacchi, te la dò.

Non mi ha risposto.

"Allora, posso scendere?

Felice poteva averlo sgozzato.

"Ti tiro la caciotta. Prendila.

Gliel'ho lanciata.

Gli è caduta vicino.

Una mano nera e rapida come una tarantola è sbucata dalla coperta e ha cominciato a tastare a terra fino a quando non ha trovato il formaggio, lo ha afferrato e lo ha fatto scomparire. Mentre mangiava le gambe gli fremevano,

come quei cani bastardi che si trovano davanti un avanzo di bistecca dopo giorni di digiuno.

"Ho anche dell'acqua... Te la porto giù?

Ha fatto un gesto con un braccio.

Mi sono calato.

Appena ha sentito che gli stavo vicino, si è acciambellato contro la parete.

Ho guardato intorno, non c'era traccia della fettina.

"Non ti faccio niente. Hai sete?" Gli ho teso la bottiglia. "Bevi, è buona.

Si è messo seduto senza levarsi di dosso la coperta. Sembrava un piccolo fantasma straccione.

Le gambe magre spuntavano simili a due ramoscelli bianchi e striminziti.

Una era legata alla catena. Ha tirato fuori un braccio e mi ha strappato la bottiglia e, come il formaggio, è scomparsa sotto la coperta.

Al fantasma si è formato un lungo naso da formichiere. Beveva.

Se l'è fatta fuori tutta in venti secondi. E quando ha finito, ha fatto pure un rutto.

"Come ti chiami?" gli ho chiesto.

Si è riaccucciato senza degnarsi di rispondere.

"Come si chiama tuo padre?

Ho aspettato invano.

"Mio padre si chiama Pino, e il tuo? Pure il tuo si chiama Pino?

Sembrava addormentato.

Sono rimasto a guardarlo, poi ho detto: "Felice! Quello lo conosci? L'ho visto. Scendeva giù in macchina... "Non sapevo più che dire. "Vuoi che me ne vado? Se vuoi me ne vado". Niente. "Va bene, me ne vado". Ho afferrato la corda. "Ciao, allora...

Ho sentito un sussurro, un respiro, qualcosa è uscito dalla coperta.

Mi sono avvicinato. "Hai parlato?

Ha bisbigliato ancora.

"Non capisco. Parla più forte.

"Gli orsetti...!" ha urlato.

Ho fatto un salto. "Gli orsetti? Come gli orsetti?

Ha abbassato il tono della voce. "Gli orsetti lavatori...

Are sens