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La puzza aumentava.

Oltre i grilli sentivo qualcos'altro. Una musica.

Note di pianoforte e una voce roca che cantava: «Che acqua gelida qua, nessuno più mi salverà.

Son caduto dalla nave, son caduto, mentre a bordo c'era il ballo. Onda su onda...»

Melichetti era un cantante?

Qualcuno stava seduto sul dondolo. A terra, vicino, c'era una radio. O era Melichetti o sua figlia zoppa.

L'ho spiato un po', acquattato dietro dei vecchi pneumatici di trattore.

Sembrava morto.

Mi sono avvicinato di più.

Era Melichetti.

La testa rinsecchita abbandonata su un cuscino lurido, la bocca aperta e la doppietta sulle ginocchia. Russava così forte che anche da là riuscivo a sentir-lo. Via libera.

Sono uscito allo scoperto, ho fatto qualche passo e i latrati acuti di un cane hanno stracciato il silenzio. Per un istante anche i grilli si sono zittiti.

Il cane! Mi ero scordato del cane.

Due occhi rossi correvano nell'oscurità. Si tirava dietro la catena e abbaiava tutto strozzato.

Mi sono tuffato a pesce nelle stoppie.

"Che c'è? Che hai? Che ti ha preso?" ha sobbalzato Melichetti. Stava sul dondolo e girava la testa come un gufo. "Tiberio! Buono! Stai buono, Tiberio!

Ma la bestia non la finiva più di abbaiare, allora Melichetti si è stiracchiato, si è messo il collare ortopedico e si è tirato su, ha spento la radio e ha acceso la torcia.

"Chi c'è? Chi c'è? C'è qualcuno?" ha urlato al buio e si è fatto un paio di giri svogliati per il cortile con la doppietta sotto il braccio, puntando il fascio di lu-ce intorno. E' ritornato indietro brontolando. "Piantala di fare questo casino.

Non c'è nessuno.

L'animale si è schiacciato a terra e ha preso a ringhiare tra i denti.

Melichetti è entrato in casa sbattendo la porta.

Mi sono tenuto il più lontano possibile dal cane e mi sono avvicinato alla porcilaia. Scorgevo, nelle tenebre, le sagome squadrate dei recinti. Il puzzo acre aumentava e mi grattava la bocca.

Mi dovevo mimetizzare. Mi sono tolto la maglietta e i pantaloncini. In mutande ho immerso le mani nella terra inzuppata di piscia e storcendo il naso

mi sono cosparso il busto, le braccia, le gambe e la faccia di quella pappa schifosa.

"Vai, Tiger. Vai e non ti fermare," ho sussurrato e ho cominciato ad avanzare a quattro zampe. Faticavo. Affondavo con le mani e con le ginocchia nel fango.

Il cane ha ripreso ad abbaiare.

Mi sono ritrovato tra due recinti. Davanti a me c'era un corridoio largo me-no di un metro che si perdeva nell'oscurità.

Li sentivo. Erano li. Facevano dei versi bassi e profondi che assomigliavano al ruggito di un leone. Avvertivo la loro forza nel buio, si muovevano in branco e pestavano con gli zoccoli, e le sbarre vibravano per le spinte.

Vai avanti e non ti girare, mi sono ordinato.

Pregavo che la mia armatura fatta di merda funzionasse. Se uno di quei be-stioni infilava il muso tra le sbarre, con un morso mi staccava una gamba.

Vedevo la fine del recinto quando c'è stato uno scalpiccio improvviso e dei grugniti, come se litigassero.

Non ho potuto fare a meno di guardare.

A un metro, due occhi gialli e maligni mi osservavano. Dietro quei piccoli fa-ri ci dovevano essere centinaia di chili di muscoli, carne e setole e unghie e zanne e fame.

Ci siamo fissati per un istante infinito, poi l'essere ha fatto uno scatto e ho avuto la certezza che avrebbe abbattuto il recinto.

Ho urlato e sono saltato in piedi e sono corso e sono scivolato nel letame e mi sono rialzato, ho ricominciato a correre, a bocca aperta, nel nero, stringendo a morte i pugni e a un tratto ero in aria, volavo, il cuore mi è finito in bocca e le budella mi si sono chiuse in un pugno di dolore.

Avevo superato il bordo della gravina.

Precipitavo nel vuoto.

Sono finito, un metro più sotto, tra i rami di un ulivo che cresceva sbilenco tra le rocce scoscese e sollevava la chioma sopra lo strapiombo.

Mi sono abbrancato a un ramo. Se non ci fosse stato quell'albero benedetto a fermare la mia caduta mi sarei spiaccicato sulle rocce. Come Francesco.

Uno spicchio di luna si era aperto un varco attraverso le nuvole livide e riuscivo a vedere, sotto di me, quella lunga ferita nella campagna.

Ho provato a girarmi ma il tronco ondeggiava come un pennone. Ora si spezza, mi sono detto.

Finisco giù con tutto l'albero.

Mi tremavano le mani e le gambe e a ogni movimento avevo la sensazione di scivolare giù.

Quando finalmente ho stretto tra le dita la roccia ho ripreso aria. Sono risalito sul bordo della gravina.

Era profonda e si sviluppava a destra e a sinistra per diverse centinaia di metri. Dentro era tutto buchi, anfratti e alberi.

Filippo poteva essere dovunque.

Alla mia destra partiva un viottolo che s'insinuava ripido tra le rocce bianche. C'era un palo conficcato nella terra, a cui era legata una corda consuma-ta che doveva servire a Melichetti per aiutarsi a scendere. Mi ci sono attaccato e ho seguito il sentiero scosceso. Dopo pochi metri sono arrivato su un terrapieno coperto di sterco. Era recintato da un parapetto fatto con dei rami le-gati tra loro. A uno spuntone erano appesi dei vestiti, delle corde e delle falci.

Poco più in là erano ammucchiati dei pali di legno. Legate a una radice che spuntava dal terreno c'erano tre caprette e una capra più grande. Mi fissavano.

Gli ho detto: "Invece di guardarmi come delle cretine, ditemi dove sta Filippo.

Un'ombra nera e silenziosa mi è calata addosso dal cielo, mi è passata sopra, mi sono riparato la testa con le mani.

Are sens