Quando stavo in strada avevo l'impressione che tutti osservavano quello che facevo. Mi pareva di scorgere dietro le finestre la madre di Barbara che mi spiava, il Teschio che mi indicava e bisbigliava con Remo, Barbara che mi sorrideva strana. Ma anche quando stavo solo, seduto su un ramo del carrubo o in bicicletta, quell'impressione non mi lasciava. Anche quando mi aprivo un varco nei resti di quel mare di spighe destinato a essere stipato nelle balle e intorno non avevo che cielo, mi pareva che mille occhi mi guardavano.
Non ci vado, state tranquilli. L'ho giurato.
Ma la collina era là, e mi aspettava.
Ho cominciato a fare la strada che portava alla fattoria di Melichetti. E ogni giorno, senza rendermene conto, ne facevo un pezzettino in più.
Filippo si era scordato di me. Lo sentivo.
Cercavo di chiamarlo con il pensiero.
Filippo? Filippo mi senti?
Non posso venire. Non posso.
Non mi pensava.
Forse era morto. Forse non c'era più.
Un pomeriggio, dopo mangiato, mi sono messo sul letto a leggere. La luce premeva contro gli scuri e filtrava nella stanza bollente. Avevo i grilli nelle orecchie. Mi sono addormentato con il giornaletto di Tiramolla in mano.
Ho sognato che era notte, ma io ci vedevo lo stesso. Le colline si muovevano nel buio. Si spostavano lente come tartarughe sotto un tappeto.
Poi tutte insieme spalancavano gli occhi, buchi rossi che si aprivano nel grano, e si sollevavano, sicure di non essere viste, e diventavano dei giganti fatti di terra e coperti di spighe che avanzavano ondeggiando sui campi e mi venivano addosso e mi seppellivano.
Mi sono risvegliato in un bagno di sudore. Sono andato al frigo a prendere l'acqua. Vedevo i giganti.
Sono uscito e ho preso la Scassona.
Ero davanti al sentiero che portava alla casa abbandonata.
La collina era li. Fosca, velata dal caldo. Mi sembrava di scorgere due occhi neri nel grano, proprio sotto la cima, ma erano solo macchie di luce, delle pieghe del terreno. Il sole aveva cominciato a scendere e smorzarsi. L'ombra della collina copriva lentamente la pianura.
Potevo salire.
Ma la voce di papà mi tratteneva. «Ascoltami bene. Se torni lì lo uccidono.
Lo hanno giurato».
Chi? Chi lo aveva giurato? Chi lo uccideva?
Il vecchio? No. Non lui. Lui non era abbastanza potente.
Loro, i giganti di terra. I signori della collina.
Ora erano stesi nei campi ed erano invisibili, ma di notte si svegliavano e attraversavano la campagna.
Se adesso andavo da Filippo, non importava che era giorno, si sarebbero sollevati come onde dell'oceano e sarebbero arrivati li e avrebbero scaricato la loro terra nel buco e lo avrebbero seppellito.
Torna indietro, Michele. Torna indietro, mi ha detto la vocina di mia sorella.
Ho girato la bicicletta e mi sono lanciato nel grano, tra le buche, pedalando come un disperato e sperando di passargli sopra la schiena a quei maledetti mostri.
Ero nascosto sotto una roccia del torrente secco.
Sudavo. Le mosche non mi lasciavano in pace.
Il Teschio li aveva stanati tutti. Ero rimasto solo io. Ora si faceva difficile.
Dovevo uscire di corsa, senza fermarmi mai, tagliare il campo di stoppie, arrivare fino al carrubo e urlare: "Tana libera tutti!
Ma il Teschio era lì, vicino all'albero, di punta come un segugio, e quando mi avrebbe visto correre si sarebbe lanciato pure lui e con quattro falcate mi avrebbe fregato.
Dovevo correre e basta, e se ce la facevo, bene, e se non ce la facevo, chi se ne importava.
Stavo per muovermi, quando un'ombra nera mi è calata addosso.
Il Teschio!
Era Salvatore. "Spostati, sennò mi vede. E' qui vicino.
Gli ho fatto spazio e si è infilato sotto la roccia pure lui.
Senza volere, mi è uscito: "Gli altri?
"Li ha pigliati tutti. Siamo rimasti solo io e te.
Era la prima volta che ci parlavamo dal giorno di Felice.