Non potevo passare di lì. Mi avrebbero sentito.
Cos'avrebbe fatto Tiger Jack al posto mio?
Li avrebbe affrontati. Li avrebbe massacrati con il suo Winchester e li avrebbe trasformati in salsicce da arrostire sul fuoco insieme a Tex e a Capelli d'argento.
No. Non era nel suo stile.
Cos'avrebbe fatto?
Pensa, mi sono detto. Sforzati.
Avrebbe cercato di levarsi l'odore umano di dosso, questo avrebbe fatto.
Gli indiani quando andavano a caccia di bufali si spalmavano di grasso e si mettevano sulla schiena le pellicce. Ecco cosa dovevo fare: mi dovevo spal-mare di terra. Non di terra, di merda.
Meglio. Se puzzavo di merda non si sarebbero accorti di me.
Mi sono avvicinato il più possibile alla casa, rimanendo nel buio.
La puzza aumentava.
Oltre i grilli sentivo qualcos'altro. Una musica.
Note di pianoforte e una voce roca che cantava: «Che acqua gelida qua, nessuno più mi salverà.
Son caduto dalla nave, son caduto, mentre a bordo c'era il ballo. Onda su onda...»
Melichetti era un cantante?
Qualcuno stava seduto sul dondolo. A terra, vicino, c'era una radio. O era Melichetti o sua figlia zoppa.
L'ho spiato un po', acquattato dietro dei vecchi pneumatici di trattore.
Sembrava morto.
Mi sono avvicinato di più.
Era Melichetti.
La testa rinsecchita abbandonata su un cuscino lurido, la bocca aperta e la doppietta sulle ginocchia. Russava così forte che anche da là riuscivo a sentir-lo. Via libera.
Sono uscito allo scoperto, ho fatto qualche passo e i latrati acuti di un cane hanno stracciato il silenzio. Per un istante anche i grilli si sono zittiti.
Il cane! Mi ero scordato del cane.
Due occhi rossi correvano nell'oscurità. Si tirava dietro la catena e abbaiava tutto strozzato.
Mi sono tuffato a pesce nelle stoppie.
"Che c'è? Che hai? Che ti ha preso?" ha sobbalzato Melichetti. Stava sul dondolo e girava la testa come un gufo. "Tiberio! Buono! Stai buono, Tiberio!
Ma la bestia non la finiva più di abbaiare, allora Melichetti si è stiracchiato, si è messo il collare ortopedico e si è tirato su, ha spento la radio e ha acceso la torcia.
"Chi c'è? Chi c'è? C'è qualcuno?" ha urlato al buio e si è fatto un paio di giri svogliati per il cortile con la doppietta sotto il braccio, puntando il fascio di lu-ce intorno. E' ritornato indietro brontolando. "Piantala di fare questo casino.
Non c'è nessuno.
L'animale si è schiacciato a terra e ha preso a ringhiare tra i denti.
Melichetti è entrato in casa sbattendo la porta.
Mi sono tenuto il più lontano possibile dal cane e mi sono avvicinato alla porcilaia. Scorgevo, nelle tenebre, le sagome squadrate dei recinti. Il puzzo acre aumentava e mi grattava la bocca.
Mi dovevo mimetizzare. Mi sono tolto la maglietta e i pantaloncini. In mutande ho immerso le mani nella terra inzuppata di piscia e storcendo il naso
mi sono cosparso il busto, le braccia, le gambe e la faccia di quella pappa schifosa.
"Vai, Tiger. Vai e non ti fermare," ho sussurrato e ho cominciato ad avanzare a quattro zampe. Faticavo. Affondavo con le mani e con le ginocchia nel fango.
Il cane ha ripreso ad abbaiare.
Mi sono ritrovato tra due recinti. Davanti a me c'era un corridoio largo me-no di un metro che si perdeva nell'oscurità.
Li sentivo. Erano li. Facevano dei versi bassi e profondi che assomigliavano al ruggito di un leone. Avvertivo la loro forza nel buio, si muovevano in branco e pestavano con gli zoccoli, e le sbarre vibravano per le spinte.
Vai avanti e non ti girare, mi sono ordinato.
Pregavo che la mia armatura fatta di merda funzionasse. Se uno di quei be-stioni infilava il muso tra le sbarre, con un morso mi staccava una gamba.