Vedevo la fine del recinto quando c'è stato uno scalpiccio improvviso e dei grugniti, come se litigassero.
Non ho potuto fare a meno di guardare.
A un metro, due occhi gialli e maligni mi osservavano. Dietro quei piccoli fa-ri ci dovevano essere centinaia di chili di muscoli, carne e setole e unghie e zanne e fame.
Ci siamo fissati per un istante infinito, poi l'essere ha fatto uno scatto e ho avuto la certezza che avrebbe abbattuto il recinto.
Ho urlato e sono saltato in piedi e sono corso e sono scivolato nel letame e mi sono rialzato, ho ricominciato a correre, a bocca aperta, nel nero, stringendo a morte i pugni e a un tratto ero in aria, volavo, il cuore mi è finito in bocca e le budella mi si sono chiuse in un pugno di dolore.
Avevo superato il bordo della gravina.
Precipitavo nel vuoto.
Sono finito, un metro più sotto, tra i rami di un ulivo che cresceva sbilenco tra le rocce scoscese e sollevava la chioma sopra lo strapiombo.
Mi sono abbrancato a un ramo. Se non ci fosse stato quell'albero benedetto a fermare la mia caduta mi sarei spiaccicato sulle rocce. Come Francesco.
Uno spicchio di luna si era aperto un varco attraverso le nuvole livide e riuscivo a vedere, sotto di me, quella lunga ferita nella campagna.
Ho provato a girarmi ma il tronco ondeggiava come un pennone. Ora si spezza, mi sono detto.
Finisco giù con tutto l'albero.
Mi tremavano le mani e le gambe e a ogni movimento avevo la sensazione di scivolare giù.
Quando finalmente ho stretto tra le dita la roccia ho ripreso aria. Sono risalito sul bordo della gravina.
Era profonda e si sviluppava a destra e a sinistra per diverse centinaia di metri. Dentro era tutto buchi, anfratti e alberi.
Filippo poteva essere dovunque.
Alla mia destra partiva un viottolo che s'insinuava ripido tra le rocce bianche. C'era un palo conficcato nella terra, a cui era legata una corda consuma-ta che doveva servire a Melichetti per aiutarsi a scendere. Mi ci sono attaccato e ho seguito il sentiero scosceso. Dopo pochi metri sono arrivato su un terrapieno coperto di sterco. Era recintato da un parapetto fatto con dei rami le-gati tra loro. A uno spuntone erano appesi dei vestiti, delle corde e delle falci.
Poco più in là erano ammucchiati dei pali di legno. Legate a una radice che spuntava dal terreno c'erano tre caprette e una capra più grande. Mi fissavano.
Gli ho detto: "Invece di guardarmi come delle cretine, ditemi dove sta Filippo.
Un'ombra nera e silenziosa mi è calata addosso dal cielo, mi è passata sopra, mi sono riparato la testa con le mani.
Una civetta.
E' risalita, si è dissolta nel nero, poi è scesa di nuovo verso il terrapieno ed è ritornata in cielo.
Strano, erano uccelli buoni.
Perché mi attaccava?
"Me ne vado, me ne vado," ho sussurrato.
La stradina proseguiva e io ho ripreso la discesa reggendomi alla corda.
Dovevo camminare rannicchiato e tastare con le mani gli ostacoli che mi si paravano davanti, come fanno i ciechi. Quando sono arrivato in fondo alla go-la, sono rimasto a bocca aperta. I cespugli di pungitopo, i cardi, i corbezzoli, i muschi e le rocce erano coperti di puntini luminosi che pulsavano come piccoli fari nella notte. Lucciole.
Le nubi si erano diradate e una mezza luna tingeva di giallo la gravina. I grilli cantavano. Il cane di Melichetti aveva smesso di abbaiare. C'era pace.
Di fronte a me cresceva un boschetto di ulivi e dietro, sull'altro versante della gola, si apriva una stretta spaccatura nella pietra.
Da dentro usciva un odore acido, di sterco. Sono entrato appena e ho sentito movimenti e belati.
Un tappeto di pecore. Le avevano chiuse dentro la grotta con una rete metallica. Erano stipate come sardine. Spazio per Filippo non ce n'era.
Sono tornato sull'altro versante, ma non riuscivo a trovare buchi, tane dove nascondere un bambino.
Quando mi ero buttato giù dalla finestra non mi era nemmeno passato per la testa che forse non riuscivo a trovarlo. Mi bastava attraversare il buio e non farmi mangiare dai maiali e lui era li.
Non era così.
Quella gravina era lunghissima e Filippo potevano averlo messo da un'altra parte.
Ero avvilito. "Filippo, dove sei?" ho urlato. Ma molto piano. Melichetti mi poteva sentire. "Rispondimi! Dove sei? Rispondimi.
Niente.
Mi ha risposto solo una civetta. Faceva un verso strano, sembrava che di-cesse «Tuttomio, tuttomio, tuttomio». Poteva essere la stessa che mi aveva attaccato prima.
Non era giusto. Avevo fatto tutta quella strada, avevo rischiato la vita per lui e lui non si faceva trovare. Ho cominciato a correre avanti e indietro tra le rocce e gli ulivi, a caso, mentre mi pigliava la disperazione.
Per la rabbia ho afferrato un ramo da terra e ho cominciato a batterlo contro una roccia, fino a spellarmi le mani. Poi mi sono seduto. Scuotevo il capo e cercavo di allontanare il pensiero che tutto era stato inutile.