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Add to favorite Se questo è un uomo – Primo Levi

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Mi mordo profondamente le labbra: a noi è noto che il procurarsi un piccolo dolore estraneo serve come sti-molante per mobilitare le estreme riserve di energia. Anche i Kapos lo sanno: alcuni ci percuotono per pura bestialità e violenza, ma ve ne sono altri che ci percuotono quando siamo sotto il carico, quasi amorevolmente, ac-compagnando le percosse con esortazioni e incoraggia-menti, come fanno i carrettieri coi cavalli volenterosi.

Arrivati al cilindro, scarichiamo a terra la traversina, e io resto impalato, cogli occhi vuoti, la bocca aperta e le braccia penzoloni, immerso nella estasi effimera e nega-tiva della cessazione del dolore. In un crepuscolo di esaurimento, attendo lo spintone che mi costringerà a riprendere il lavoro, e cerco di profittare di ogni secondo dell’attesa per ricuperare qualche energia.

Ma lo spintone non viene; Resnyk mi tocca il gomito, il piú lentamente possibile ritorniamo alle traversine. Là si aggirano gli altri, a coppie, cercando tutti di indugiare quanto piú possono prima di sottoporsi al carico.

– Allons, petit, attrape –. Questa traversina è asciutta e un po’ piú leggera, ma alla fine del secondo viaggio mi presento al Vorarbeiter e chiedo di andare alla latrina.

Noi abbiamo il vantaggio che la nostra latrina è piuttosto lontana; questo ci autorizza, una volta al giorno, a una assenza un po’ piú lunga che di norma, e inoltre, poiché è proibito recarvisi da soli, ne è seguito che Wachsmann, il piú debole e maldestro del Kommando, è stato investito della carica di Scheissbegleiter, «accompagnatore alle latrine»; Wachsmann, per virtú di tale nomina, è responsabile di un nostro ipotetico (risibile ipotesi!) tentativo di fuga, e, piú realisticamente, di ogni nostro ritardo.

Poiché la mia domanda è stata accettata, me ne parto nel fango, nella neve grigia e tra i rottami metallici, scor-Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo tato dal piccolo Wachsmann. Con questo non riesco a intendermi, perché non abbiamo alcuna lingua in comune; ma i suoi compagni mi hanno detto che è rabbino, è anzi un Melamed, un dotto della Thorà, e inoltre, al suo paese, in Galizia, aveva fama di guaritore e di taumatur-go. Né sono lontano dal crederlo, pensando come, cosí esile e fragile e mite, riesca da due anni a lavorare senza ammalarsi e senza morire, acceso invece di una stupefacente vitalità di sguardo e di parola, per cui passa lunghe sere a discutere di questioni talmudiche, incom-prensibilmente, in yiddisch e in ebraico, con Mendi che è rabbino modernista.

La latrina è un’oasi di pace. È una latrina provvisoria, che i tedeschi non hanno ancora provveduto delle con-suete tramezze in legno che separano i vari scomparti-menti: «Nur für Engländer», «Nur für Polen», «Nur für Ukrainische Frauen» e cosí via, e, un po’ in disparte,

«Nur für Häftlinge». All’interno, spalla a spalla, siedono quattro Häftlinge famelici; un vecchio barbuto operaio russo con la fascia azzurra OST sul braccio sinistro; un ragazzo polacco, con una grande P bianca sulla schiena e sul petto; un prigioniero militare inglese, dal viso splendidamente rasato e roseo, con la divisa kaki nitida, stirata e pulita, a parte il grosso marchio KG (Kriegsge-fangener) sul dorso. Un quinto Häftling sta sulla porta, e ad ogni civile che entra sfilandosi la cintola, chiede paziente e monotono: – Etes-vous français?

Quando ritorno al lavoro, si vedono passare gli autocarri del rancio, il che vuol dire che sono le dieci, e questa è già un’ora rispettabile, tale che la pausa di mezzogiorno già si profila nella nebbia del futuro remoto e noi possiamo cominciare ad attingere energia dall’attesa.

Faccio con Resnyk ancora due o tre viaggi, cercando con ogni cura, anche spingendoci a cataste lontane, di trovare traversine piú leggere, ma ormai tutte le migliori sono già state trasportate, e non restano che le altre, Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo atroci, dagli spigoli vivi, pesanti di fango e ghiaccio, con inchiodate le piastre metalliche per adattarvi le rotaie.

Quando viene Franz a chiamare Wachsmann perché vada con lui a ritirare il rancio, vuol dire che sono le undici, e il mattino è quasi passato, e al pomeriggio nessuno pensa. Poi c’è il ritorno della corvée, alle undici e mezzo, e l’interrogatorio stereotipo, quanta zuppa oggi, e di che qualità, e se ci è toccata dal principio o dal fondo del mastello; io mi sforzo di non farle, queste domande, ma non posso impedirmi di tendere avidamente l’orecchio alle risposte, e il naso al fumo che viene col vento dalla cucina.

E finalmente, come una meteora celeste, sovrumana e impersonale come un segno divino, la sirena di mezzogiorno esplode a esaudire le nostre stanchezze e le nostre fami anonime e concordi. E di nuovo accadono le cose solite: tutti accorriamo alla baracca, e ci mettiamo in fila colle gamelle tese, e tutti abbiamo una fretta ani-malesca di perfonderci i visceri con l’intruglio caldo, ma nessuno vuol essere il primo, perché al primo tocca la razione piú liquida. Come al solito, il Kapo ci irride e ci insulta per la nostra voracità, e si guarda bene dal rime-scolare la marmitta, perché il fondo spetta notoriamente a lui. Poi viene la beatitudine (positiva questa, e viscera-le) della distensione e del calore nel ventre e nella capanna intorno alla stufa rombante. I fumatori, con gesti avari e pii, si arrotolano una magra sigaretta, e gli abiti di tutti, madidi di fango e di neve, fumano densi alla vampa della stufa, con odore di canile e di gregge.

Una tacita convenzione vuole che nessuno parli: in un minuto tutti dormono, serrati gomito a gomito, cascan-do improvvisi in avanti e riprendendosi con un irrigidir-si del dorso. Di dietro alle palpebre appena chiuse, erompono i sogni con violenza, e anche questi sono i soliti sogni. Di essere a casa nostra, in un meraviglioso bagno caldo. Di essere a casa nostra seduti a tavola. Di es-Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo sere a casa e raccontare questo nostro lavorare senza speranza, questo nostro aver fame sempre, questo nostro dormire di schiavi.

Poi, in seno ai vapori delle digestioni torpide, un nucleo doloroso si condensa, e ci punge, e cresce fino a varcare le soglie della coscienza, e ci toglie la gioia del sonno. «Es wird bald ein Uhr sein»: è quasi la una. Co-me un cancro rapido e vorace, fa morire il nostro sonno e ci stringe di angoscia preventiva: tendiamo l’orecchio al vento che fischia fuori e al leggero fruscio della neve contro il vetro, «es wird schnell ein Uhr sein». Mentre ognuno si aggrappa al sonno perché non ci abbandoni, tutti i sensi sono tesi nel raccapriccio del segnale che sta per venire, che è fuori della porta, che è qui...

Eccolo. Un tonfo al vetro, Meister Nogalla ha lancia-to contro la finestrella una palla di neve, ed ora sta rigido in piedi fuori, e tiene l’orologio col quadrante rivolto verso di noi. Il Kapo si alza in piedi, si stira, e dice, sommesso come chi non dubita di essere obbedito: – Alles heraus, – tutti fuori.

Oh poter piangere! Oh poter affrontare il vento come un tempo facevamo, da pari a pari, e non come qui, co-me vermi vuoti di anima!

Siamo fuori, e ciascuno riprende la sua leva. Resnyk insacca la testa fra le spalle, si calca il berretto sugli orecchi, e leva il viso al cielo basso e grigio da cui turbina la neve inesorabile: – Si j’avey une chien, je ne le chasse pas dehors.

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Primo Levi - Se questo è un uomo UNA BUONA GIORNATA

La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è piú semplice.

Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera.

Di altro, ora, non ci curiamo. Dietro a questa meta non c’è, ora, altra meta Al mattino, quando, in fila in piazza dell’Appello, aspettiamo senza fine l’ora di partire per il lavoro, e ogni soffio di vento penetra sotto le vesti e corre in brividi violenti per i nostri corpi indifesi, e tutto è grigio intorno, e noi siamo grigi; al mattino, quando è ancor buio, tutti scrutiamo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della stagione mite, e il levare del sole viene ogni giorno commentato: oggi un po’ prima di ieri; oggi un po’ piú caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà tregua, e avremo un nemico di meno.

Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori del l’orizzonte di fango. È un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide, ma quando si è sciolto dalle ultime brume un mormorio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho sentito il tepore attraverso i panni, ho compreso come si possa adorare il sole.

– Das Schlimmste ist vorüber, – dice Ziegler tendendo al sole le spalle aguzze: il peggio è passato. Accanto a noi è un gruppo di greci, di questi ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, cosí determinati a vivere e cosí spietati avversari nella lotta per la vita; di quei greci che hanno prevalso nelle cucine e in cantiere, e che perfino i tedeschi rispettano e i polacchi temono. Sono al loro terzo anno di campo, e nessuno sa meglio di loro che cosa è il campo; ora stanno Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una delle loro interminabili cantilene.

Felicio il greco mi conosce: – L’année prochaine à la maison! – mi grida; ed aggiunge: – ... à la maison par la Cheminée! – Felicio è stato a Birkenau. E continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza e si ubriacano di canzoni.

Quando siamo finalmente usciti dalla grande porta del campo, il sole era discretamente alto e il cielo sereno. Si vedevano a mezzogiorno le montagne; a ponente, familiare e incongruo, il campanile di Auschwitz (qui, un campanile!) e tutto intorno i palloni frenati dello sbarramento. I fumi della Buna ristagnavano nell’aria fredda, e si vedeva anche una fila di colline basse, verdi di foreste: e a noi si è stretto il cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau, che là sono finite le nostre donne, e presto anche noi vi finiremo: ma non siamo abituati a vederlo.

Per la prima volta ci siamo accorti che, ai due lati della strada, anche qui i prati sono verdi: perché, se non c’è sole, un prato è come se non fosse verde.

La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bel-lezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con numeri o lettere, o con nomi disumani e Sinistri.

Dentro al suo recinto non cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e piú quelle di questi.

La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.

La Torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e cosí noi la chiamiamo Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno degen-te di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.

E oggi ancora, cosí come nella favola antica, noi tutti sentiamo che i tedeschi stessi sentono, che una maledizione, non trascendente e divina, ma immanente e storica, pende sulla insolente compagine, fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a sfida del cielo come una bestemmia di pietra.

Come diremo, dalla fabbrica di Buna, attorno a cui per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscí mai un chilogrammo di gomma sintetica.

Ma oggi le eterne pozzanghere, su cui trema un velo iridato di petrolio, riflettono il cielo sereno. Tubi, travi, caldaie, ancora freddi del gelo della notte, sono grondanti di rugiada. La terra smossa degli scavi, i mucchi di carbone, i blocchi di cemento, esalano in lieve nebbia l’umidità dell’inverno.

Oggi è una buona giornata. Ci guardiamo intorno, come ciechi che riacquistino la vista, e ci guardiamo l’un l’altro. Non ci eravamo mai visti al sole: qualcuno sorri-de. Se non fosse della fame!

Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita.

Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui cosí spesso, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.

Are sens