Primo Levi - Se questo è un uomo accanto a Null Achtzehn; ma ormai già passano i prigionieri inglesi, sarà presto ora di rientrare al campo.
Durante la marcia faccio del mio meglio per camminare svelto, ma non riesco a tenere il passo; il Kapo designa Null Achtzehn e Finder perché mi sostengano fino al passaggio davanti alle SS, e finalmente (fortunatamen-te stasera non c’è appello) sono in baracca e mi posso buttare sulla cuccetta e respirare.
Forse è il calore, forse la fatica della marcia, ma il dolore si è risvegliato, assieme a una strana sensazione di umidità al piede ferito. Tolgo la scarpa: è piena di sangue, ormai rappreso e impastato con il fango e coi brandelli del cencio che ho trovato un mese fa e che adopero come pezza da piedi, un giorno a destra, un giorno a sinistra.
Stasera, subito dopo la zuppa, andrò in Ka-Be.
Ka-Be è abbreviazione di Krankenbau, l’infermeria.
Sono otto baracche, simili in tutto alle altre del campo, ma separate da un reticolato. Contengono permanente-mente un decimo della popolazione del campo, ma pochi vi soggiornano piú di due settimane e nessuno piú di due mesi: entro questi termini siamo tenuti a morire o a guarire. Chi ha tendenza alla guarigione, in Ka-Be viene curato; chi ha tendenza ad aggravarsi, dal Ka-Be viene mandato alle camere a gas.
Tutto questo perché noi, per nostra fortuna, apparte-niamo alla categoria degli «ebrei economicamente utili».
Al Ka-Be non sono mai stato, neppure all’Ambulatorio, e tutto qui è nuovo per me.
Gli ambulatori sono due, Medico e Chirurgico. Davanti alla porta, nella notte e nel vento, stanno due lunghe file di ombre. Alcuni hanno bisogno solo di un ben-daggio o di qualche pillola, altri chiedono visita; qualcuno ha la morte in viso. I primi delle due file già sono scalzi e pronti a entrare; gli altri, a mano a mano Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo che il loro turno di ingresso si avvicina, si ingegnano, in mezzo alla ressa, di sciogliere i legacci di fortuna e i fili di ferro delle calzature, e di svolgere, senza lacerarle, le preziose pezze da piedi; non troppo presto, per non stare inutilmente nel fango a piedi nudi; non troppo tardi, per non perdere il turno d’ingresso: poiché entrare in Ka-Be con le scarpe è rigorosamente proibito. Chi fa rispettare il divieto è un gigantesco Häftling francese, il quale risiede nella guardiola che sta fra le porte dei due ambulatori. È uno dei pochi funzionari francesi del campo: né si pensi che il passare la propria giornata fra le scarpe fangose e sbrindellate costituisca un piccolo privilegio. Basta pensare a quanti entrano in Ka-Be colle scarpe, e ne escono senza averne piú bisogno...
Quando arriva la mia volta, riesco miracolosamente a togliermi scarpe e stracci senza perdere gli uni né le altre, senza farmi rubare la gamella né i guanti, e senza perdere l’equilibrio, pur stringendo sempre in mano il berretto, che per nessuna ragione si può tenere in capo quando si entra nelle baracche.
Lascio le scarpe al deposito e ritiro lo scontrino relativo, dopo di che, scalzo e zoppicante, le mani impedite da tutte le povere mie cose che non posso lasciare da nessuna parte, sono ammesso all’interno e mi accodo a una nuova fila che fa capo alla sala delle visite.
In questa fila ci si spoglia progressivamente, e quando si arriva verso la testa, bisogna essere nudi perché un infermiere ci infila il termometro sotto l’ascella; se qualcuno è vestito, perde il turno e ritorna ad accodarsi. Tutti devono ricevere il termometro, anche se hanno soltanto la scabbia o il mal di denti.
In questo modo si è sicuri che chi non è seriamente malato non si sobbarcherà per capriccio a questo complicato rituale.
Arriva finalmente la mia volta: sono ammesso davanti al medico, l’infermiere mi toglie il termometro e mi an-Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo nuncia: – Nummer 174 517, kein Fieber –. Per me non occorre una visita a fondo: sono immediatamente dichia-rato Arztvormelder, che cosa voglia dire non so, non è certo questo il posto di domandare spiegazioni. Mi trovo espulso, ricupero le scarpe e ritorno in baracca.
Chajim si felicita con me: ho una buona ferita, non pare pericolosa e mi garantisce un discreto periodo di riposo. Passerò la notte in baracca con gli altri, ma domani mattina, invece di andare al lavoro, mi debbo ripre-sentare ai medici per la visita definitiva: questo vuol dire Arztvormelder. Chajim è pratico di queste cose, e pensa che probabilmente domani verrò ammesso al Ka-Be.
Chajim è il mio compagno di letto, ed io ho in lui una fiducia cieca. È un polacco, ebreo pio, studioso della Legge. Ha press’a poco la mia età, è di mestiere orologiaio, e qui in Buna fa il meccanico di precisione; è perciò fra i pochi che conservino la dignità e la sicurezza di sé che nascono dall’esercitare un’arte per cui si è preparati.
Cosí è stato. Dopo la sveglia e il pane, mi hanno chia-mato fuori con altri tre della mia baracca. Ci hanno portati in un angolo della piazza dell’Appello, dove c’era una lunga fila, tutti gli Arztvormelder di oggi; è venuto un tale e mi ha portato via gamella cucchiaio berretto e guanti.
Gli altri hanno riso, non sapevo che dovevo nasconderli o affidarli a qualcuno, o meglio che tutto venderli, e che in Ka-Be non si possono portare? Poi guardano il mio numero e scuotono il capo: da uno che ha un numero cosí alto ci si può aspettare qualunque sciocchezza.
Poi ci hanno contati, ci hanno fatti spogliare fuori al freddo, ci hanno tolto le scarpe, ci hanno di nuovo contati, ci hanno rasa la barba i capelli e i peli, ci hanno contati ancora, e ci hanno fatto fare una doccia; poi è venuta una SS, ci ha guardati senza interesse, si è sofferma-ta davanti a uno che ha un grosso idrocele, e lo ha fatto mettere da parte. Dopo di che ci hanno contati ancora una volta e ci hanno fatto fare un’altra doccia, benché Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo fossimo ancora bagnati della prima e alcuni tremassero di febbre.
Ora siamo pronti per la visita definitiva. Fuori dalla finestra si vede il cielo bianco, e qualche volta il sole; in questo paese lo si può guardare fisso, attraverso le nuvole, co-me attraverso un vetro affumicato. A giudicare dalla sua posizione, debbono essere le quattordici passate: addio zuppa ormai, e siamo in piedi da dieci ore e nudi da sei.
Anche questa seconda visita medica è straordinaria-mente rapida: il medico (ha il vestito a righe come noi, ma sopra indossa un camice bianco, ed ha il numero cucito sul camice, ed è molto piú grasso di noi) guarda e palpa il mio piede gonfio e sanguinante, al che io grido di dolore, poi dice: – Aufgenommen, Block 23 –. Io resto lí a bocca aperta, in attesa di qualche altra indicazione, ma qualcuno mi tira brutalmente indietro, mi getta un mantello sulle spalle nude, mi porge un paio di sandali e mi caccia all’aperto.
A un centinaio di metri c’è il Block 23; sopra c’è scritto «Schonungsblock»: chissà cosa vorrà dire? Dentro, mi tolgono mantello e sandali, e io mi trovo ancora una volta nudo e ultimo di una fila di scheletri nudi: i ricoverati di oggi.
Da molto tempo ho smesso di cercare di capire. Per quanto mi riguarda, sono ormai cosí stanco di reggermi sul piede ferito e non ancora medicato, cosí affamato e pieno di freddo, che nulla piú mi interessa. Questo può benissimo essere l’ultimo dei miei giorni, e questa camera la camera dei gas di cui tutti parlano, che ci potrei fa-re? Tanto vale appoggiarsi al muro e chiudere gli occhi e aspettare.
Il mio vicino non deve essere ebreo. Non è circonci-so, e poi (questa è una delle poche cose che ho imparato finora) una pelle cosí bionda, un viso e una corporatura cosí massicci sono caratteristici dei polacchi non ebrei.
È piú alto di me di tutta la testa, ma ha una fisionomia Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo abbastanza cordiale, come l’hanno solo coloro che non soffrono la fame.
Ho provato a chiedergli se sa quando ci faranno entrare. Lui si è voltato all’infermiere, che gli somiglia co-me un gemello e sta in un angolo a fumare; hanno parlato e riso insieme senza rispondere, come se io non ci fossi: poi uno di loro mi ha preso il braccio e ha guardato il numero, e allora hanno riso piú forte. Tutti sanno che i centosettantaquattromila sono gli ebrei italiani: i ben noti ebrei italiani, arrivati due mesi fa, tutti avvoca-ti, tutti dottori, erano piú di cento e già non sono che quaranta, quelli che non sanno lavorare e si lasciano rubare il pane e prendono schiaffi dal mattino alla sera; i tedeschi li chiamano «zwei linke Hände» (due mani si-nistre), e perfino gli ebrei polacchi li disprezzano perché non sanno parlare yiddisch.
L’infermiere indica all’altro le mie costole, come se io fossi un cadavere in sala anatomica; accenna alle palpebre e alle guance gonfie e al collo sottile, si curva e preme coll’indice sulla mia tibia e fa notare all’altro la profonda incavatura che il dito lascia nella carne pallida, come nella cera.
Vorrei non aver mai rivolto la parola al polacco: mi pare di non avere mai, in tutta la mia vita, subito un af-fronto piú atroce di questo. L’infermiere intanto pare abbia finito la sua dimostrazione, nella sua lingua che io non capisco e che mi suona terribile; si rivolge a me, e in quasi-tedesco, caritatevolmente, me ne fornisce il com-pendio: – Du Jude kaputt. Du schnell Krematorium fer-tig – (tu ebreo spacciato, tu presto crematorio, finito).
Qualche altra ora è passata prima che tutti i ricoverati venissero presi in forza, ricevessero la camicia e fosse compilata la loro scheda. Io, come al solito, sono stato l’ultimo; un tale, col vestito a rigoni nuovo fiammante, Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo mi ha chiesto dove sono nato, che mestiere facevo «da civile», se avevo figli, quali malattie ho avuto, una quantità di domande, a che cosa possono mai servire, questa è una complicata messinscena per farsi beffe di noi. Sarebbe questo l’ospedale? Ci fanno stare nudi in piedi e ci fanno delle domande.
Finalmente anche per me si è aperta la porta, e ho potuto entrare nel dormitorio.