Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavan l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.
Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno.
«Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicavano due diverse direzioni.
Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di piú apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero
«bene bene, stare con figlio». Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra: era il loro ufficio di ogni giorno.
In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottí, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di piú di cinquecento, non uno era vivo due giorni piú tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema piú semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati.
Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri.
Cosí morí Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il de-genere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.
Scomparvero cosí, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo piú nulla.
Emersero invece nella luce dei fanali due drappelli di Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo strani individui. Camminavano inquadrati, per tre, con un curioso passo impacciato, il capo spenzolato in avanti e le braccia rigide. In capo avevano un buffo berrettino, ed erano vestiti di una lunga palandrana a righe, che anche di notte e di lontano si indovinava sudicia e stracciata.
Descrissero un ampio cerchio attorno a noi, in modo da non avvicinarci, e, in silenzio, si diedero ad armeggiare coi nostri bagagli, e a salire e scendere dai vagoni vuoti.
Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle, ma una cosa avevamo capito. Questa era la metamorfosi che ci attendeva. Domani anche noi saremmo diventati cosí.
Senza sapere come, mi trovai caricato su di un autocarro con una trentina di altri; l’autocarro partí nella notte a tutta velocità; era coperto e non si poteva vedere fuori, ma dalle scosse si capiva che la strada aveva molte curve e cunette. Eravamo senza scorta? ...buttarsi giú?
Troppo tardi, troppo tardi, andiamo tutti «giú». D’altronde, ci siamo presto accorti che non siamo senza scorta: è una strana scorta. È un soldato tedesco, irto d’armi: non lo vediamo perché è buio fitto, ma ne sentiamo il contatto duro ogni volta che uno scossone del veicolo ci getta tutti in mucchio a destra o a sinistra. Accende una pila tascabile, e invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli: tanto dopo non ci servono piú. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte.
La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo.
Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo SUL FONDO
Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.
Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua nei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, «essi» sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten. Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude.
Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno de-ve essere cosí, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può piú pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia.
Non siamo morti; la porta si è aperta ed è entrata una SS, sta fumando. Ci guarda senza fretta, chiede: – Wer kann Deutsch? Si fa avanti uno fra noi che non ho mai visto, si chiama Flesch; sarà lui il nostro interprete. La SS fa un lungo discorso pacato: l’interprete traduce. Bisogna mettersi in fila per cinque, a intervalli di due metri fra uomo e uomo; poi bisogna spogliarsi e fare un fagotto degli abiti in un certo modo, gli indumenti di lana da una parte e tutto il resto dall’altra, togliersi le scarpe ma far molta attenzione di non farcele rubare.
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Primo Levi - Se questo è un uomo Rubare da chi? perché ci dovrebbero rubare le scarpe? e i nostri documenti, il poco che abbiamo in tasca, gli orologi? Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete interrogò il tedesco, e il tedesco fumava e lo guardò da parte a parte come se fosse stato trasparente, come se nessuno avesse parlato.
Non avevo mai visto uomini anziani nudi. Il signor Bergmann portava il cinto erniario, e chiese all’interprete se doveva posarlo, e l’interprete esitò. Ma il tedesco comprese, e parlò seriamente all’interprete indicando qualcuno; abbiamo visto l’interprete trangugiare, e poi ha detto: – Il maresciallo dice di deporre il cinto, e che le sarà dato quello del signor Coen –. Si vedevano le parole uscire amare dalla bocca di Flesch, quello era il mo-do di ridere del tedesco.
Poi viene un altro tedesco, e dice di mettere le scarpe in un certo angolo, e noi le mettiamo, perché ormai è finito e ci sentiamo fuori del mondo e l’unica cosa è obbe-dire. Viene uno con la scopa e scopa via tutte le scarpe, via fuori dalla porta in un mucchio. È matto, le mescola tutte, novantasei paia, poi saranno spaiate. La porta dà all’esterno, entra un vento gelido e noi siamo nudi e ci copriamo il ventre con le braccia. Il vento sbatte e richiude la porta; il tedesco la riapre, e sta a vedere con aria assorta come ci contorciamo per ripararci dal vento uno dietro l’altro; poi se ne va e la richiude.
Adesso è il secondo atto. Entrano con violenza quattro con rasoi, pennelli e tosatrici, hanno pantaloni e giacche a righe, un numero cucito sul petto; forse sono della specie di quegli altri di stasera (stasera o ieri sera?); ma questi sono robusti e floridi. Noi facciamo molte domande, loro invece ci agguantano e in un momento ci troviamo rasi e tosati. Che facce goffe abbiamo senza capelli! I quattro parlano una lingua che non sembra di questo mondo, certo non è tedesco, io un poco il tedesco lo capisco.
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Primo Levi - Se questo è un uomo Finalmente si apre un’altra porta: eccoci tutti chiusi, nudi tosati e in piedi, coi piedi nell’acqua, è una sala di docce. Siamo soli, a poco a poco lo stupore si scioglie e parliamo, e tutti domandano e nessuno risponde. Se siamo nudi in una sala di docce, vuol dire che faremo la doccia. Se faremo la doccia, è perché non ci ammazzano ancora. E allora perché ci fanno stare in piedi, e non ci dànno da bere, e nessuno ci spiega niente, e non abbiamo né scarpe né vestiti ma siamo tutti nudi coi piedi nell’acqua, e fa freddo ed è cinque giorni che viaggiamo e non possiamo neppure sederci.
E le nostre donne?
L’ingegner Levi mi chiede se penso che anche le nostre donne siano cosí come noi in questo momento, e dove sono, e se le potremo rivedere. Io rispondo che sí, perché lui è sposato e ha una bambina; certo le rivedremo. Ma ormai la mia idea è che tutto questo è una grande macchina per ridere di noi e vilipenderci, e poi è chiaro che ci uccidono, chi crede di vivere è pazzo, vuol dire che ci è cascato, io no, io ho capito che presto sarà finita, forse in questa stessa camera, quando si saranno annoiati di vederci nudi, ballare da un piede all’altro e provare ogni tanto a sederci sul pavimento, ma ci sono tre dita d’acqua fredda e non ci possiamo sedere.
Andiamo in su e in giú senza costrutto, e parliamo, ciascuno parla con tutti gli altri, questo fa molto chiasso.
Si apre la porta, entra un tedesco, è il maresciallo di prima; parla breve, l’interprete traduce. – Il maresciallo dice che dovete fare silenzio, perché questa non è una scuola rabbinica –. Si vedono le parole non sue, le parole cattive, torcergli la bocca uscendo, come se sputasse un boccone disgustoso. Lo preghiamo di chiedergli che cosa aspettiamo, quanto tempo ancora staremo qui, delle nostre donne, tutto: ma lui dice di no, che non vuol chiedere. Questo Flesch, che si adatta molto a malincuore a tradurre in italiano frasi tedesche piene di gelo, e rifiuta di Letteratura italiana Einaudi
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