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Add to favorite Se questo è un uomo – Primo Levi

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Primo Levi - Se questo è un uomo volgere in tedesco le nostre domande perché sa che è inutile, è un ebreo tedesco sulla cinquantina, che porta in viso la grossa cicatrice di una ferita riportata combatten-do contro gli italiani sul Piave. È un uomo chiuso e taciturno, per il quale provo un istintivo rispetto perché sento che ha cominciato a soffrire prima di noi.

Il tedesco se ne va, e noi adesso stiamo zitti, quantunque ci vergogniamo un poco di stare zitti. Era ancora notte, ci chiedevamo se mai sarebbe venuto il giorno. Di nuovo si aprí la porta, ed entro uno vestito a righe. Era diverso dagli altri, piú anziano, cogli occhiali, un viso piú civile, ed era molto meno robusto. Ci parla, e parla italiano.

Oramai siamo stanchi di stupirci. Ci pare di assistere a qualche dramma pazzo, di quei drammi in cui vengono sulla scena le streghe, lo Spirito Santo e il demonio.

Parla italiano malamente, con un forte accento straniero. Ha fatto un lungo discorso, è molto cortese, cerca di rispondere a tutte le nostre domande.

Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna.

Riceveremo scarpe e vestiti, no, non i nostri; altre scarpe, altri vestiti, come i suoi. Ora siamo nudi perché aspettiamo la doccia e la disinfezione, le quali avranno luogo subito dopo la sveglia, perché in campo non si entra se non si fa la disinfezione.

Certo, ci sarà da lavorare, tutti qui devono lavorare.

Ma c’è lavoro e lavoro: lui, per esempio, fa il medico, è un medico ungherese che ha studiato in Italia; è il dentista del Lager. È in Lager da quattro anni (non in questo: la Buna esiste da un anno e mezzo soltanto), eppure, possiamo vederlo, sta bene, non è molto magro. Perché Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo è in Lager? È ebreo come noi? – No, – dice lui con sem-plicità, – io sono un criminale.

Noi gli facciamo molte domande, lui qualche volta ri-de, risponde ad alcune e non ad altre, si vede bene che evita certi argomenti. Delle donne non parla: dice che stanno bene, che presto le rivedremo, ma non dice né co-me né dove. Invece ci racconta altro, cose strane e folli, forse anche lui si fa gioco di noi. Forse è matto: in Lager si diventa matti. Dice che tutte le domeniche ci sono concerti e partite di calcio. Dice che chi tira bene di boxe può diventare cuoco. Dice che chi lavora bene riceve buoni-premio con cui ci si può comprare tabacco e sapone. Dice che veramente l’acqua non è potabile, e che invece ogni giorno si distribuisce un surrogato di caffè, ma generalmente nessuno lo beve, perché la zuppa stessa è acquosa quanto basta per soddisfare la sete. Noi lo preghiamo di procurarci qualcosa da bere, ma lui dice che non può, che è venuto a vederci di nascosto, contro il divieto delle SS, perché noi siamo ancora da disinfettare, e deve andarsene subito; è venuto perché gli sono simpatici gli italiani, e perché, dice, «ha un po’ di cuore». Noi gli chiediamo ancora se ci sono altri italiani in campo, e lui dice che ce n’è qualcuno, pochi, non sa quanti, e subito cambia discorso. In quel mentre ha suonato una campana, e lui è subito fuggito, e ci ha lasciati attoniti e scon-certati. Qualcuno si sente rinfrancato, io no, io continuo a pensare che anche questo dentista, questo individuo incomprensibile, ha voluto divertirsi a nostre spese, e non voglio credere una parola di quanto ha detto.

Alla campana, si è sentito il campo buio ridestarsi.

Improvvisamente l’acqua è scaturita bollente dalle docce, cinque minuti di beatitudine; ma subito dopo irrom-pono quattro (forse sono i barbieri) che, bagnati e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è gelida; qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo di scarpacce a suola di legno, non abbiamo tempo di comprendere e già ci troviamo all’aperto, sulla neve azzurra e gelida dell’alba, e, scalzi e nudi, con tutto il cor-redo in mano, dobbiamo correre fino ad un’altra baracca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci.

Quando abbiamo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l’uno sull’altro. Non c’è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupaz-zi miserabili e sordidi. Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Piú giú di cosí non si può andare: condizione umana piú misera non c’è, e non è pensabile. Nulla piú e nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sí che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.

Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che cosí sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle piú piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il piú umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.

Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, di-mentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel ca-so piú fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità. Si comprenderà allora il duplice significato del termine

«Campo di annientamento», e sarà chiaro che cosa in-tendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo.

Häftling: ho imparato che io sono uno Häftling. Il mio nome è 174 517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro.

L’operazione è stata lievemente dolorosa, e straordi-nariamente rapida: ci hanno messi tutti in fila, e ad uno ad uno, secondo l’ordine alfabetico dei nostri nomi, siamo passati davanti a un abile funzionario munito di una specie di punteruolo dall’ago cortissimo. Pare che questa sia l’iniziazione vera e propria: solo «mostrando il numero» si riceve il pane e la zuppa. Sono occorsi vari giorni, e non pochi schiaffi e pugni, perché ci abituassi-mo a mostrare il numero prontamente, in modo da non intralciare le quotidiane operazioni annonarie di distribuzione; ci son voluti settimane e mesi perché ne ap-prendessimo il suono in lingua tedesca. E per molti giorni, quando l’abitudine dei giorni liberi mi spinge a cercare l’ora sull’orologio a polso, mi appare invece ironicamente il mio nuovo nome, il numero trapunto in segni azzurrognoli sotto l’epidermide.

Solo molto piú tardi, e a poco a poco, alcuni di noi hanno poi imparato qualcosa della funerea scienza dei numeri di Auschwitz, in cui si compendiano le tappe della distruzione dell’ebraismo d’Europa. Ai vecchi del campo, il numero dice tutto: l’epoca di ingresso al campo, il convoglio di cui si faceva parte, e di conseguenza Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo la nazionalità. Ognuno tratterà con rispetto i numeri dal 30.000 all’80.000: non sono piú che qualche centinaio, e contrassegnano i pochi superstiti dei ghetti polacchi.

Conviene aprire bene gli occhi quando si entra in relazioni commerciali con un 116.000 o 117.000: sono ridotti ormai a una quarantina, ma si tratta dei greci di Salonicco, non bisogna lasciarsi mettere nel sacco. Quanto ai numeri grossi, essi comportano una nota di essenziale comicità, come avviene per i termini «matricola» o «co-scritto» nella vita normale: il grosso numero tipico è un individuo panciuto, docile e scemo, a cui puoi far credere che all’infermeria distribuiscono scarpe di cuoio per individui dai piedi delicati, e convincerlo a corrervi e a lasciarti la sua gamella di zuppa «in custodia»; gli puoi vendere un cucchiaio per tre razioni di pane; lo puoi mandare dal piú feroce dei Kapos, a chiedergli (è successo a me!) se è vero che il suo è il Kartoffelschälkom-mando, il Kommando Pelatura Patate, e se è possibile esservi arruolati.

D’altronde, l’intero processo di inserimento in questo ordine per noi nuovo avviene in chiave grottesca e sarca-stica. Finita l’operazione di tatuaggio, ci hanno chiusi in una baracca dove non c’è nessuno. Le cuccette sono ri-fatte, ma ci hanno severamente proibito di toccarle e di sedervi sopra: cosí ci aggiriamo senza scopo per metà della giornata nel breve spazio disponibile, ancora tor-mentati dalla sete furiosa del viaggio. Poi la porta si è aperta, ed è entrato un ragazzo dal vestito a righe, dall’aria abbastanza civile, piccolo, magro e biondo.

Questo parla francese, e gli siamo addosso in molti, tem-pestandolo di tutte le domande che finora ci siamo ri-volti l’un l’altro inutilmente.

Ma non parla volentieri: nessuno qui parla volentieri.

Siamo nuovi, non abbiamo niente e non sappiamo nien-Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo te; a che scopo perdere tempo con noi? Ci spiega di malavoglia che tutti gli altri sono fuori a lavorare, e torne-ranno a sera. Lui è uscito stamane dall’infermeria, per oggi è esente dal lavoro. Io gli ho chiesto (con un’inge-nuità che solo pochi giorni dopo già doveva parermi favolosa) se ci avrebbero restituito almeno gli spazzolini da denti; lui non ha riso, ma col viso atteggiato a intenso disprezzo mi ha gettato: – Vous n’êtes pas à la maison –.

Ed è questo il ritornello che da tutti ci sentiamo ripetere: non siete piú a casa, questo non è un sanatorio, di qui non si esce che per il Camino (cosa vorrà dire? lo impa-reremo bene piú tardi).

E infatti: spinto dalla sete, ho adocchiato, fuori di una finestra, un bel ghiacciolo a portata di mano. Ho aperto la finestra, ho staccato il ghiacciolo, ma subito si è fatto avanti uno grande e grosso che Si aggirava là fuori, e me lo ha strappato brutalmente. – Warum? – gli ho chiesto nel mio povero tedesco. – Hier ist kein Warum, – (qui non c’è perché), mi ha risposto, ricacciandomi dentro con uno spintone.

La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo luogo è proibito tutto, non già per riposte ragioni, ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se vorremo viverci, bisognerà capirlo presto e bene:

... Qui non ha luogo il Santo Volto, qui si nuota altrimenti che nel Serchio!

Ora dopo ora, questa prima lunghissima giornata di antinferno volge al termine. Mentre il sole tramonta in un vortice di truci nubi sanguigne, ci fanno finalmente uscire dalla baracca. Ci daranno da bere? No, ci mettono ancora una volta in fila, ci conducono in un vasto piazzale che occupa il centro del campo, e ci dispongono meticolosamente inquadrati. Poi non accade piú nulla per un altra ora: sembra che si aspetti qualcuno.

Letteratura italiana Einaudi

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