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Primo Levi - Se questo è un uomo controllo dei pidocchi e al controllo della lavatura dei piedi; al sabato farsi radere la barba e i capelli, rammendarsi o farsi rammendare gli stracci; alla domenica, sottoporsi al controllo generale della scabbia, e al controllo dei bottoni della giacca, che devono essere cinque.
Di piú, ci sono innumerevoli circostanze, normalmente irrilevanti, che qui diventano problemi. Quando le unghie si allungano, bisogna accorciarle, il che non si può fare altrimenti che coi denti (per le unghie dei piedi basta l’attrito delle scarpe); se si perde un bottone bisogna saperselo riattaccare con un filo di ferro; se si va alla latrina o al lavatoio, bisogna portarsi dietro tutto, sempre e dovunque, e mentre ci si lavano gli occhi, tenere il fagotto degli abiti stretto fra le ginocchia: in qualunque altro modo, esso in quell’attimo verrebbe rubato. Se una scarpa fa male bisogna presentarsi alla sera alla cerimonia del cambio delle scarpe; qui si mette alla prova la perizia dell’individuo, in mezzo alla calca incredibile bisogna saper scegliere con un colpo d’occhio una (non un paio: una) scarpa che si adatti, perché, fatta la scelta, un secondo cambio non è concesso.
Né si creda che le scarpe, nella vita del Lager, costi-tuiscano un fattore d’importanza secondaria. La morte incomincia dalle scarpe: esse si sono rivelate, per la maggior parte di noi, veri arnesi di tortura, che dopo poche ore di marcia davano luogo a piaghe dolorose che fatalmente si infettavano. Chi ne è colpito, è costretto a camminare come se avesse una palla al piede (ecco il perché della strana andatura dell’esercito di larve che ogni sera rientra in parata); arriva ultimo dappertutto, e dappertutto riceve botte; non può scappare se lo inseguono; i suoi piedi si gonfiano, e piú si gonfiano, piú l’attrito con il legno e la tela delle scarpe diventa insopportabile. Allora non resta che l’ospedale: ma entrare in ospedale con la diagnosi di «dicke Füsse» (piedi gonfi) è estrema-Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo mente pericoloso, perché è ben noto a tutti, ed alle SS in ispecie, che di questo male, qui, non si può guarire.
E in tutto questo, non abbiamo ancora accennato al lavoro, il quale è a sua volta un groviglio di leggi, di tabú e di problemi.
Tutti lavoriamo, tranne i malati (farsi riconoscere co-me malato comporta di per sé un imponente bagaglio di cognizioni e di esperienze). Tutte le mattine usciamo inquadrati dal campo alla Buna; tutte le sere, inquadrati, rientriamo. Per quanto concerne il lavoro, siamo suddi-visi in circa duecento Kommandos, ognuno dei quali conta da quindici a centocinquanta uomini ed è coman-dato da un Kapo. Vi sono Kommandos buoni e cattivi: per la maggior parte sono adibiti a trasporti, e il lavoro vi è assai duro, specialmente d’inverno, se non altro perché si svolge sempre all’aperto. Vi sono anche Kommandos di specialisti (elettricisti, fabbri, muratori, saldatori, meccanici, cementisti, ecc.), ciascuno addetto a una certa officina o reparto della Buna, e dipendenti in modo piú diretto da Meister civili, per lo piú tedeschi e polacchi; questo avviene naturalmente solo nelle ore di lavoro: nel resto della giornata, gli specialisti (non sono piú di tre o quattrocento in tutto) non hanno trattamento diverso dai lavoratori comuni. All’assegnazione dei singoli ai vari Kommandos sovrintende uno speciale ufficio del Lager, l’Arbeitsdienst, che è in continuo contatto con la direzione civile della Buna. L’Arbeitsdienst decide in base a criteri sconosciuti, spesso palesemente in base a protezioni e corruzioni, in modo che, se qualcuno riesce a procurarsi da mangiare, è anche praticamente sicuro di ottenere un buon posto in Buna.
L’orario di lavoro è variabile con la stagione. Tutte le ore di luce sono ore lavorative: perciò si va da un orario minimo invernale (ore 8-12 e 12,30-16) a uno massimo estivo (ore 6,30-12 e 13-18). Per nessuna ragione gli Häftlinge possono trovarsi al lavoro nelle ore di oscurità Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo o quando c’è nebbia fitta, mentre si lavora regolarmente anche se piove o nevica o (caso assai frequente) soffia il vento feroce dei Carpazi; questo in relazione al fatto che il buio o la nebbia potrebbero dare occasione a tentativi di fuga.
Una domenica ogni due è regolare giorno lavorativo; nelle domeniche cosiddette festive, invece di lavorare in Buna si lavora di solito alla manutenzione del Lager, in mo-do che i giorni di effettivo riposo sono estremamente rari.
Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausrücken ed Einrücken, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o morire.
... E fino a quando? Ma gli anziani ridono a questa domanda: a questa domanda si riconoscono i nuovi arrivati. Ridono e non rispondono: per loro, da mesi, da an-ni, il problema del futuro remoto è impallidito, ha perso ogni acutezza, di fronte ai ben piú urgenti e concreti problemi del futuro prossimo: quanto si mangerà oggi, se nevicherà, se ci sarà da scaricare carbone.
Se fossimo ragionevoli, dovremmo rassegnarci a questa evidenza, che il nostro destino è perfettamente inco-noscibile, che ogni congettura è arbitraria ed esattamente priva di fondamento reale. Ma ragionevoli gli uomini sono assai raramente, quando è in gioco il loro proprio destino: essi preferiscono in ogni caso le posizioni estreme; perciò, a seconda del loro carattere, fra di noi gli uni si sono convinti immediatamente che tutto è perduto, che qui non si può vivere e che la fine è certa e prossima; gli altri, che, per quanto dura sia la vita che ci attende, la salvezza è probabile e non lontana, e, se avremo fede e forza, rivedremo le nostre case e i nostri cari. Le due classi, dei pessimisti e degli ottimisti, non sono peraltro cosí ben distinte: non già perché gli agnostici siano mol-Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo ti, ma perché i piú, senza memoria né coerenza, oscilla-no fra le due posizioni-limite, a seconda dell’interlocu-tore e del momento.
Eccomi dunque sul fondo. A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fa-me regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è piú mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non c! vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro.
Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta piú pochi, e piú deformi, e piú squallidi. Ed era cosí faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo.
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Primo Levi - Se questo è un uomo INIZIAZIONE
Dopo i primi giorni di capricciosi trasferimenti da blocco a blocco e da Kommando a Kommando, a sera tarda, sono stato assegnato al Block 30, e mi viene indi-cata una cuccetta in cui già dorme Diena. Diena si sveglia, e, benché esausto, mi fa posto e mi riceve amiche-volmente.
Io non ho sonno, o per meglio dire il mio sonno è ma-scherato da uno stato di tensione e di ansia da cui non sono ancora riuscito a liberarmi, e perciò parlo e parlo.
Ho troppe cose da chiedere. Ho fame, e quando domani distribuiranno la zuppa, come farò a mangiarla senza cucchiaio? e come si può avere un cucchiaio? e dove mi manderanno a lavorare? Diena ne sa quanto me, naturalmente, e mi risponde con altre domande. Ma da sopra, da sotto, da vicino, da lontano, da tutti gli angoli della baracca ormai buia, voci assonnate e iraconde mi gridano: – Ruhe, Ruhe!
Capisco che mi si impone il silenzio, ma questa parola è per me nuova, e poiché non ne conosco il senso e le implicazioni, la mia inquietudine cresce. La confusione delle lingue è una componente fondamentale del modo di vivere di quaggiú; si è circondati da una perpetua Babele, in cui tutti urlano ordini e minacce in lingue mai prima udite, e guai a chi non afferra a volo. Qui nessuno ha tempo, nessuno ha pazienza, nessuno ti dà ascolto; noi ultimi venuti ci raduniamo istintivamente negli angoli, contro i muri, come fanno le pecore, per sentirci le spalle materialmente coperte.
Rinuncio dunque a fare domande, e in breve scivolo in un sonno amaro e teso. Ma non è riposo: mi sento minac-ciato, insidiato, ad ogni istante sono pronto a contrarmi in uno spasimo di difesa. Sogno, e mi pare di dormire su una strada, su un ponte, per traverso di una porta per cui Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo va e viene molta gente. Ed ecco giunge, ahi quanto presto, la sveglia. L’intera baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accendono, tutti intorno a me si agitano in una repentina attività frenetica: scuotono le coperte suscitando nembi di polvere fetida, si vestono con fretta febbrile, corrono fuori nel gelo dell’aria esterna vestiti a mezzo, si precipitano verso le latrine e il lavatoio; molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pa-ne, del pane-Brot-Broit-chleb-pain-lechem-kenyér, del sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua. È una allucinazione quotidiana, a cui si finisce col fare l’abitudine: ma nei primi tempi è cosí irresistibile che molti fra noi, dopo lungo discutere a coppie sulla propria palese e costante sfortuna, e sfacciata fortuna altrui, si scambiano infine le razioni, al che l’illusione si ripristina invertita la-sciando tutti scontenti e frustrati.
Il pane è anche la nostra sola moneta: nei pochi minuti che intercorrono fra la distribuzione e la consumazio-ne, il Block risuona di richiami, di liti e di fughe. Sono i creditori di ieri che pretendono il pagamento, nei brevi istanti in cui il debitore è solvibile. Dopo di che, subentra una relativa quiete, e molti ne approfittano per recarsi nuovamente alle latrine a fumare mezza sigaretta, o al lavatoio per lavarsi veramente.
Il lavatoio è un locale poco invitante. È male illumina-to, pieno di correnti d’aria, e il pavimento di mattoni è coperto da uno strato di fanghiglia; l’acqua non è potabile, ha un odore disgustoso e spesso manca per molte ore. Le pareti sono decorate da curiosi affreschi didasca-lici: vi si vede ad esempio lo Häftling buono, effigiato nudo fino alla cintola, in atto di insaponarsi diligentemente il cranio ben tosato e roseo, e lo Häftling cattivo, dal naso fortemente semitico e dal colorito verdastro, il quale, tutto infagottato negli abiti vistosamente mac-Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo chiati, e col berretto in testa, immerge cautamente un dito nell’acqua del lavandino. Sotto al primo sta scritto:
«So bist du rein» (cosí sei pulito), e sotto al secondo:
«So gehst du ein» (cosí vai in rovina); e piú in basso, in dubbio francese ma in caratteri gotici: «La propreté, c’est la santé».
Sulla parete opposta campeggia un enorme pidocchio bianco rosso e nero, con la scritta: «Eine Laus, dein Tod» (un pidocchio è la tua morte), e il distico ispirato: Nach dem Abort, vor dem Essen
Hände waschen, nicht vergessen (dopo la latrina, prima di mangiare, làvati le mani, non dimenticare).
Per molte settimane, ho considerato questi ammoni-menti all’igiene come puri tratti di spirito teutonico, nello stile del dialogo relativo al cinto erniario con cui eravamo stati accolti al nostro ingresso in Lager. Ma ho poi capito che i loro ignoti autori, forse inconsciamente, non erano lontani da alcune importanti verità. In questo luogo, lavarsi tutti i giorni nell’acqua torbida del lavandino immondo è praticamente inutile ai fini della pulizia e della salute; è invece importantissimo come sintomo di residua vitalità, e necessario come strumento di soprav-vivenza morale.
Devo confessarlo: dopo una sola settimana di prigio-nia, in me l’istinto della pulizia è sparito. Mi aggiro cion-dolando per il lavatoio, ed ecco Steinlauf, il mio amico quasi cinquantenne, a torso nudo, che si strofina collo e spalle con scarso esito (non ha sapone) ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo. Perché dovrei lavarmi? starei forse meglio di quanto sto? piacerei di piú a qualcuno? vivrei un giorno, un’ora di piú? Vivrei anzi di meno, perché lavarsi è un lavoro, uno spreco Letteratura italiana Einaudi
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