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Add to favorite Se questo è un uomo – Primo Levi

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È piú alto di me di tutta la testa, ma ha una fisionomia Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo abbastanza cordiale, come l’hanno solo coloro che non soffrono la fame.

Ho provato a chiedergli se sa quando ci faranno entrare. Lui si è voltato all’infermiere, che gli somiglia co-me un gemello e sta in un angolo a fumare; hanno parlato e riso insieme senza rispondere, come se io non ci fossi: poi uno di loro mi ha preso il braccio e ha guardato il numero, e allora hanno riso piú forte. Tutti sanno che i centosettantaquattromila sono gli ebrei italiani: i ben noti ebrei italiani, arrivati due mesi fa, tutti avvoca-ti, tutti dottori, erano piú di cento e già non sono che quaranta, quelli che non sanno lavorare e si lasciano rubare il pane e prendono schiaffi dal mattino alla sera; i tedeschi li chiamano «zwei linke Hände» (due mani si-nistre), e perfino gli ebrei polacchi li disprezzano perché non sanno parlare yiddisch.

L’infermiere indica all’altro le mie costole, come se io fossi un cadavere in sala anatomica; accenna alle palpebre e alle guance gonfie e al collo sottile, si curva e preme coll’indice sulla mia tibia e fa notare all’altro la profonda incavatura che il dito lascia nella carne pallida, come nella cera.

Vorrei non aver mai rivolto la parola al polacco: mi pare di non avere mai, in tutta la mia vita, subito un af-fronto piú atroce di questo. L’infermiere intanto pare abbia finito la sua dimostrazione, nella sua lingua che io non capisco e che mi suona terribile; si rivolge a me, e in quasi-tedesco, caritatevolmente, me ne fornisce il com-pendio: – Du Jude kaputt. Du schnell Krematorium fer-tig – (tu ebreo spacciato, tu presto crematorio, finito).

Qualche altra ora è passata prima che tutti i ricoverati venissero presi in forza, ricevessero la camicia e fosse compilata la loro scheda. Io, come al solito, sono stato l’ultimo; un tale, col vestito a rigoni nuovo fiammante, Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo mi ha chiesto dove sono nato, che mestiere facevo «da civile», se avevo figli, quali malattie ho avuto, una quantità di domande, a che cosa possono mai servire, questa è una complicata messinscena per farsi beffe di noi. Sarebbe questo l’ospedale? Ci fanno stare nudi in piedi e ci fanno delle domande.

Finalmente anche per me si è aperta la porta, e ho potuto entrare nel dormitorio.

Anche qui, come dappertutto, cuccette a tre piani, in tre file per tutta la baracca, separate da due corridoi strettissimi. Le cuccette sono centocinquanta, i malati circa duecentocinquanta: due quindi in quasi tutte le cuccette. I malati delle cuccette superiori, schiacciati contro il soffitto, non possono quasi stare seduti; si sporgono curiosi a vedere i nuovi arrivati di oggi, è il momento piú interessante della giornata, si trova sempre qualche conoscente. Io sono stato assegnato alla cuccetta 10; miracolo! è vuota. Mi distendo con delizia, è la prima volta, da che sono in campo, che ho una cuccetta tutta per me. Nonostante la fame, non passano dieci minuti che sono addormentato.

La vita del Ka-Be è vita di limbo. I disagi materiali so-no relativamente pochi, a parte la fame e le sofferenze inerenti alle malattie. Non fa freddo, non si lavora, e, a meno di commettere qualche grave mancanza, non si viene percossi.

La sveglia è alle quattro, anche per i malati; bisogna rifare il letto e lavarsi, ma non c’è molta fretta né molto rigore. Alle cinque e mezzo distribuiscono il pane, e si può tagliarlo comodamente a fette sottili, e mangiare sdraiati con tutta calma; poi ci si può riaddormentare, fi-no alla distribuzione del brodo di mezzogiorno. Fin verso le sedici è Mittagsruhe, riposo pomeridiano; a quest’ora c’è sovente la visita medica e la medicazione, Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo bisogna scendere dalle cuccette, togliersi la camicia e fa-re la fila davanti al medico. Anche il rancio serale viene distribuito nei letti; dopo di che, alle ventuno, tutte le luci si spengono, tranne la lampadina velata della guardia di notte, ed è il silenzio.

... E per la prima volta da che sono in campo, la sveglia mi coglie nel sonno profondo, e il risveglio è un ritorno dal nulla. Alla distribuzione del pane si sente lontano, fuori delle finestre, nell’aria buia, la banda che incomincia a suonare: sono i compagni sani che escono inquadrati al lavoro.

Dal Ka-Be la musica non si sente bene: arriva assiduo e monotono il martellare della grancassa e dei piatti, ma su questa trama le frasi musicali si disegnano solo a intervalli, col capriccio del vento. Noi ci guardiamo l’un l’altro dai nostri letti, perché tutti sentiamo che questa musica è infernale.

I motivi sono pochi, una dozzina, ogni giorno gli stessi, mattina e sera: marce e canzoni popolari care a ogni tedesco. Esse giacciono incise nelle nostre menti, saranno l’ultima cosa del Lager che dimenticheremo: sono la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per ucciderci poi lentamente.

Quando questa musica suona, noi sappiamo che i compagni, fuori nella nebbia, partono in marcia come automi; le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà. Non c’è piú volontà: ogni pulsazione diventa un passo, una contrazione riflessa dei muscoli sfatti. I tedeschi sono riusciti a questo. Sono diecimila, e sono una sola grigia macchina; sono esattamente determinati; non pensano e non vogliono, camminano.

Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? quale prova piú concreta della loro vittoria?

Anche quelli del Ka-Be conoscono questo uscire e rientrare dal lavoro, l’ipnosi del ritmo interminabile, che uccide il pensiero e attutisce il dolore; l’hanno provato e lo riproveranno. Ma bisognava uscire dall’incantamen-to, sentire la musica dal di fuori, come accadeva in Ka-Be e come ora la ripensiamo, dopo la liberazione e la ri-nascita, senza obbedirvi, senza subirla, per capire che cosa era; per capire per quale meditata ragione i tedeschi avevano creato questo rito mostruoso, e perché, og-gi ancora, quando la memoria ci restituisce qualcuna di quelle innocenti canzoni, il sangue ci si ferma nelle vene, e siamo consci che essere ritornati da Auschwitz non è stata piccola ventura.

Ho due vicini di cuccetta. Giacciono tutto il giorno e tutta la notte fianco a fianco, pelle contro pelle, incro-ciati come i Pesci dello zodiaco, in modo che ciascuno ha i piedi dell’altro accanto al capo.

Uno è Walter Bonn, un olandese civile e abbastanza colto. Vede che non ho nulla per tagliare il pane, mi impresta il suo coltello, poi si offre di vendermelo per mezza razione di pane. Io discuto sul prezzo, indi rinuncio, penso che qui in Ka-Be ne troverò sempre qualcuno in prestito, e fuori costano solo un terzo di razione. Non per questo Walter vien meno alla sua cortesia, e a mezzogiorno, mangiata la sua zuppa, forbisce colle labbra il cucchiaio (il che è buona norma prima di imprestarlo, per ripulirlo e per non mandare sprecate le tracce di zuppa che vi aderiscono) e me lo offre spontaneamente.

– Che malattia hai, Walter? – «Körperschwäche», –

deperimento organico. La peggiore malattia: non la si Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo può curare, ed è molto pericoloso entrare in Ka-Be con questa diagnosi. Se non fosse stato dell’edema alle caviglie (e me le mostra) che gli impedisce di uscire al lavoro, si sarebbe ben guardato dal farsi ricoverare.

Su questo genere di pericoli io ho ancora idee assai confuse. Tutti ne parlano indirettamente, per allusioni, e quando io faccio qualche domanda mi guardano e tac-ciono.

È dunque vero quello che si sente dire, di selezioni, di gas, di crematorio ?

Crematorio. L’altro, il vicino di Walter, si sveglia di soprassalto, si rizza a sedere: chi parla di crematorio?

che avviene? non si può lasciare in pace chi dorme? È

un ebreo polacco, albino, dal viso scarno e bonario, non piú giovane. Si chiama Schmulek, è fabbro. Walter lo ragguaglia brevemente.

Cosí, «der Italeyner» non crede alle selezioni? Schmulek vorrebbe parlare tedesco ma parla yiddisch; lo capisco a stento, solo perché lui vuole farsi capire. Fa tacere Walter con un cenno, ci penserà lui a farmi persuaso:

– Mostrami il tuo numero: tu sei il 174 517. Questa numerazione è incominciata diciotto mesi fa, e vale per Auschwitz e per i campi dipendenti. Noi siamo ora diecimila qui a Buna-Monowitz; forse trentamila fra Auschwitz e Birkenau. Wo sind die Andere? dove sono gli altri?

– Forse trasferiti in altri campi...? – propongo io.

Schmulek crolla il capo, si rivolge a Walter:

– Er will nix verstayen, – non vuole capire.

Ma era destino che presto mi inducessi a capire, e Schmulek stesso ne facesse le spese. A sera si è aperta la porta della baracca, una voce ha gridato – Achtung! – e ogni rumore si è spento e si è sentito un silenzio di piombo.

Letteratura italiana Einaudi

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Primo Levi - Se questo è un uomo Sono entrate due SS (uno dei due ha molti gradi, forse è un ufficiale?), si sentivano i loro passi nella baracca come se fosse vuota; hanno parlato col medico capo, questi ha mostrato loro un registro indicando qua e là.

L’ufficiale ha preso nota su un libretto. Schmulek mi tocca le ginocchia: – Pass’ auf, pass’ auf, – fa’ attenzione.

L’ufficiale, seguito dal medico, gira in silenzio e con noncuranza fra le cuccette; ha in mano un frustino, frusta un lembo di coperta che pende da una cuccetta alta, il malato si precipita a riassettarla. L’ufficiale passa oltre.

Un altro ha il viso giallo; l’ufficiale gli strappa via le coperte, quello trasalisce, l’ufficiale gli palpa il ventre, dice: – Gut, gut, poi passa oltre.

Ecco, ha posato lo sguardo su Schmulek; tira fuori il libretto, controlla il numero del letto e il numero del tatuaggio. Io vedo tutto bene, dall’alto: ha fatto una crocet-ta accanto al numero di Schmulek. Poi è passato oltre.

Io guardo ora Schmulek, e dietro di lui ho visto gli occhi di Walter, e allora non ho fatto domande.

Il giorno dopo, invece del solito gruppo di guariti, so-no stati messi in uscita due gruppi distinti. I primi sono stati rasi e tosati e hanno fatto la doccia. I secondi sono usciti cosí, con le barbe lunghe e le medicazioni non rin-novate, senza doccia. Nessuno ha salutato questi ultimi, nessuno li ha incaricati di messaggi per i compagni sani.

Di questi faceva parte Schmulek.

Are sens