Eccolo. Un tonfo al vetro, Meister Nogalla ha lancia-to contro la finestrella una palla di neve, ed ora sta rigido in piedi fuori, e tiene l’orologio col quadrante rivolto verso di noi. Il Kapo si alza in piedi, si stira, e dice, sommesso come chi non dubita di essere obbedito: – Alles heraus, – tutti fuori.
Oh poter piangere! Oh poter affrontare il vento come un tempo facevamo, da pari a pari, e non come qui, co-me vermi vuoti di anima!
Siamo fuori, e ciascuno riprende la sua leva. Resnyk insacca la testa fra le spalle, si calca il berretto sugli orecchi, e leva il viso al cielo basso e grigio da cui turbina la neve inesorabile: – Si j’avey une chien, je ne le chasse pas dehors.
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Primo Levi - Se questo è un uomo UNA BUONA GIORNATA
La persuasione che la vita ha uno scopo è radicata in ogni fibra di uomo, è una proprietà della sostanza umana. Gli uomini liberi dànno a questo scopo molti nomi, e sulla sua natura molto pensano e discutono: ma per noi la questione è piú semplice.
Oggi e qui, il nostro scopo è di arrivare a primavera.
Di altro, ora, non ci curiamo. Dietro a questa meta non c’è, ora, altra meta Al mattino, quando, in fila in piazza dell’Appello, aspettiamo senza fine l’ora di partire per il lavoro, e ogni soffio di vento penetra sotto le vesti e corre in brividi violenti per i nostri corpi indifesi, e tutto è grigio intorno, e noi siamo grigi; al mattino, quando è ancor buio, tutti scrutiamo il cielo a oriente a spiare i primi indizi della stagione mite, e il levare del sole viene ogni giorno commentato: oggi un po’ prima di ieri; oggi un po’ piú caldo di ieri; fra due mesi, fra un mese, il freddo ci darà tregua, e avremo un nemico di meno.
Oggi per la prima volta il sole è sorto vivo e nitido fuori del l’orizzonte di fango. È un sole polacco freddo bianco e lontano, e non riscalda che l’epidermide, ma quando si è sciolto dalle ultime brume un mormorio è corso sulla nostra moltitudine senza colore, e quando io pure ho sentito il tepore attraverso i panni, ho compreso come si possa adorare il sole.
– Das Schlimmste ist vorüber, – dice Ziegler tendendo al sole le spalle aguzze: il peggio è passato. Accanto a noi è un gruppo di greci, di questi ammirevoli e terribili ebrei Saloniki tenaci, ladri, saggi, feroci e solidali, cosí determinati a vivere e cosí spietati avversari nella lotta per la vita; di quei greci che hanno prevalso nelle cucine e in cantiere, e che perfino i tedeschi rispettano e i polacchi temono. Sono al loro terzo anno di campo, e nessuno sa meglio di loro che cosa è il campo; ora stanno Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo stretti in cerchio, spalla a spalla, e cantano una delle loro interminabili cantilene.
Felicio il greco mi conosce: – L’année prochaine à la maison! – mi grida; ed aggiunge: – ... à la maison par la Cheminée! – Felicio è stato a Birkenau. E continuano a cantare, e battono i piedi in cadenza e si ubriacano di canzoni.
Quando siamo finalmente usciti dalla grande porta del campo, il sole era discretamente alto e il cielo sereno. Si vedevano a mezzogiorno le montagne; a ponente, familiare e incongruo, il campanile di Auschwitz (qui, un campanile!) e tutto intorno i palloni frenati dello sbarramento. I fumi della Buna ristagnavano nell’aria fredda, e si vedeva anche una fila di colline basse, verdi di foreste: e a noi si è stretto il cuore, perché tutti sappiamo che là è Birkenau, che là sono finite le nostre donne, e presto anche noi vi finiremo: ma non siamo abituati a vederlo.
Per la prima volta ci siamo accorti che, ai due lati della strada, anche qui i prati sono verdi: perché, se non c’è sole, un prato è come se non fosse verde.
La Buna no: la Buna è disperatamente ed essenzialmente opaca e grigia. Questo sterminato intrico di ferro, di cemento, di fango e di fumo è la negazione della bel-lezza. Le sue strade e i suoi edifici si chiamano come noi, con numeri o lettere, o con nomi disumani e Sinistri.
Dentro al suo recinto non cresce un filo d’erba, e la terra è impregnata dei succhi velenosi del carbone e del petrolio, e nulla è vivo se non macchine e schiavi: e piú quelle di questi.
La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il Lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto.
La Torre del Carburo, che sorge in mezzo alla Buna e la cui sommità è raramente visibile in mezzo alla nebbia, siamo noi che l’abbiamo costruita. I suoi mattoni sono stati chiamati Ziegel, briques, tegula, cegli, kamenny, bricks, téglak, e l’odio li ha cementati; l’odio e la discordia, come la Torre di Babele, e cosí noi la chiamiamo Babelturm, Bobelturm; e odiamo in essa il sogno degen-te di grandezza dei nostri padroni, il loro disprezzo di Dio e degli uomini, di noi uomini.
E oggi ancora, cosí come nella favola antica, noi tutti sentiamo che i tedeschi stessi sentono, che una maledizione, non trascendente e divina, ma immanente e storica, pende sulla insolente compagine, fondata sulla confusione dei linguaggi ed eretta a sfida del cielo come una bestemmia di pietra.
Come diremo, dalla fabbrica di Buna, attorno a cui per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscí mai un chilogrammo di gomma sintetica.
Ma oggi le eterne pozzanghere, su cui trema un velo iridato di petrolio, riflettono il cielo sereno. Tubi, travi, caldaie, ancora freddi del gelo della notte, sono grondanti di rugiada. La terra smossa degli scavi, i mucchi di carbone, i blocchi di cemento, esalano in lieve nebbia l’umidità dell’inverno.
Oggi è una buona giornata. Ci guardiamo intorno, come ciechi che riacquistino la vista, e ci guardiamo l’un l’altro. Non ci eravamo mai visti al sole: qualcuno sorri-de. Se non fosse della fame!
Poiché tale è la natura umana, che le pene e i dolori Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo simultaneamente sofferti non si sommano per intero nella nostra sensibilità, ma si nascondono, i minori dietro i maggiori, secondo una legge prospettica definita.
Questo è provvidenziale, e ci permette di vivere in campo. Ed è anche questa la ragione per cui cosí spesso, nella vita libera, si sente dire che l’uomo è incontentabile: mentre, piuttosto che di una incapacità umana per uno stato di benessere assoluto, si tratta di una sempre insufficiente conoscenza della natura complessa dello stato di infelicità, per cui alle sue cause, che sono molteplici e gerarchicamente disposte, si dà un solo nome, quello della causa maggiore; fino a che questa abbia eventualmente a venir meno, e allora ci si stupisce dolorosamente al vedere che dietro ve n’è un’altra; e in realtà, una serie di altre.
Perciò, non appena il freddo, che per tutto l’inverno ci era parso l’unico nemico, è cessato, noi ci siamo accorti di avere fame: e, ripetendo lo stesso errore, cosí og-gi diciamo: «Se non fosse della fame! ...»
Ma come si potrebbe pensare di non aver fame? il Lager è la fame: noi stessi siamo la fame, fame vivente.
Al di là della strada lavora una draga. La benna, so-spesa ai cavi, spalanca le mascelle dentate, si libra un attimo come esitante nella scelta, poi si avventa alla terra argillosa e morbida, e azzanna vorace, mentre dalla cabi-na di comando sale uno sbuffo soddisfatto di fumo bianco e denso. Poi si rialza, fa un mezzo giro, vomita a tergo il boccone di cui è grave, e ricomincia.
Appoggiati alle nostre pale, noi stiamo a guardare af-fascinati. A ogni morso della benna, le bocche si soc-chiudono, i pomi d’Adamo danzano in su e poi in giú, miseramente visibili sotto la pelle floscia. Non riusciamo a svincolarci dallo spettacolo del pasto della draga.
Sigi ha diciassette anni, ed ha piú fame di tutti quantunque riceva ogni sera un po’ di zuppa da un suo pro-tettore, verosimilmente non disinteressato. Aveva co-Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo minciato col parlare della sua casa di Vienna e di sua madre, ma poi è scivolato nel tema della cucina e ora racconta senza fine di non so che pranzo nuziale, e ricorda. con genuino rimpianto, di non aver finito il terzo piatto di zuppa di fagioli. E tutti lo fanno tacere, e non passano dieci minuti, che Béla ci descrive la sua campagna ungherese, e i campi di granoturco, e una ricetta per fare la polenta dolce, con la meliga tostata, e il lardo, e le spezie, e... e viene maledetto, insultato, e comincia un terzo a raccontare...
Come è debole la nostra carne! Io mi rendo conto ap-pieno di quanto siano vane queste fantasie di fame, ma non mi posso sottrarre alla legge comune, e mi danza davanti agli occhi la pasta asciutta che avevamo appena cucinata, Vanda, Luciana, Franco ed io, in Italia al campo di smistamento, quando ci è giunta a un tratto la notizia che all’indomani saremmo partiti per venire qui; e stavamo mangiandola (era cosí buona, gialla, solida) e abbiamo smesso, noi sciocchi, noi insensati: se avessimo saputo! E se ci dovesse succedere un’altra volta... Assurdo; se una cosa è certa al mondo, è bene questa: che non ci succederà un’altra volta.
Pischer, l’ultimo arrivato, cava di tasca un involto, confezionato con la minuzia degli ungheresi, e dentro c’è mezza razione di pane: la metà del pane di stamattina. È
ben noto che solo i Grossi Numeri conservano in tasca il loro pane; nessuno di noi anziani è in grado di serbare il pane per un’ora. Varie teorie circolano per giustificare questa nostra incapacità: il pane mangiato a poco per volta non si assimila del tutto; la tensione nervosa necessaria per conservare il pane, avendo fame, senza intaccar-lo, è nociva e debilitante in alto grado; il pane che divie-ne raffermo perde rapidamente il suo valore alimentare, per cui, quanto prima viene ingerito, tanto piú risulta nu-triente; Alberto dice che la fame e il pane in tasca sono addendi di segno contrario, che si elidono automatica-Letteratura italiana Einaudi