Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo (chi ha le scarpe rotte?) e subito si scatena il fragore dei quaranta o cinquanta pretendenti al cambio, i quali si precipitano verso il Tagesraum con furia disperata, ben sapendo che soltanto i dieci primi arrivati, nella migliore delle ipotesi, saranno soddisfatti.
Poi è la quiete. La luce si spegne una prima volta, per pochi secondi, per avvisare i sarti di riporre il preziosis-simo ago e il filo; poi suona lontano la campana, e allora si insedia la guardia di notte e tutte le luci si spengono definitivamente. Non ci resta che spogliarci e coricarci.
Non so chi sia il mio vicino; non sono neppure sicuro che sia sempre la stessa persona, perché non l’ho mai visto in viso se non per qualche attimo nel tumulto della sveglia, in modo che molto meglio del suo viso conosco il suo dorso e i suoi piedi. Non lavora nel mio Kommando e viene in cuccetta solo al momento del silenzio; si avvoltola nella coperta, mi spinge da parte con un colpo delle anche ossute, mi volge il dorso e comincia subito a russare. Schiena contro schiena, io mi adopero per con-quistarmi una superficie ragionevole di pagliericcio; esercito colle reni una pressione progressiva contro le sue reni, poi mi rigiro e provo a spingere colle ginocchia, gli prendo le caviglie e cerco di sistemarle un po’
piú in là in modo da non avere i suoi piedi accanto al vi-so: ma tutto è inutile, è molto piú pesante di me e sembra pietrificato dal sonno.
Allora io mi adatto a giacere cosí, costretto all’immo-bilità, per metà sulla sponda di legno. Tuttavia sono cosí stanco e stordito che in breve scivolo anch’io nel sonno e mi pare di dormire sui binari del treno.
Il treno sta per arrivare: si sente ansare la locomotiva, la quale è il mio vicino. Non sono ancora tanto addormentato da non accorgermi della duplice natura della locomotiva. Si tratta precisamente di quella locomotiva Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo che rimorchiava oggi in Buna i vagoni che ci hanno fatto scaricare: la riconosco dal fatto che anche ora, come quando è passata vicina a noi, si sente il calore che irra-dia dal suo fianco nero. Soffia, è sempre piú vicina, è sempre sul punto di essermi addosso, e invece non arriva mai. Il mio sonno è molto sottile, è un velo, se voglio lo lacero. Lo farò, voglio lacerarlo, cosí potrò togliermi dai binari. Ecco, ho voluto, e ora sono sveglio: ma non proprio sveglio, soltanto un po’ di piú, al gradino superiore della scala fra l’incoscienza e la coscienza. Ho gli occhi chiusi, e non li voglio aprire per non lasciar fuggire il sonno, ma posso percepire i rumori: questo fischio lontano sono sicuro che è vero, non viene dalla locomotiva sognata, è risuonato oggettivamente: è il fischio della Decauville, viene dal cantiere che lavora anche di notte. Una lunga nota ferma, poi un’altra piú bassa di un semitono, poi di nuovo la prima, ma breve e tronca.
Questo fischio è una cosa importante, e in qualche mo-do essenziale: cosí sovente l’abbiamo udito, associato al-la sofferenza del lavoro e del campo, che ne è divenuto il simbolo, e ne evoca direttamente la rappresentazione, come accade per certe musiche e certi odori.
Qui c’è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è piú forte di me. Racconto anche diffu-samente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del Kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono.
Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusa-mente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.
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Primo Levi - Se questo è un uomo Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta in superficie, ma questa volta apro deliberata-mente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio.
Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tuttora pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha con-fidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni cosí costantemente, nella scena sempre ri-petuta della narrazione fatta e non ascoltata?
... Mentre cosí medito, cerco di profittare dell’intervallo di veglia per scuotermi di dosso i brandelli di angoscia del sopore precedente, in modo da non compro-mettere la qualità del sonno successivo. Mi rannicchio a sedere nel buio, mi guardo intorno e tendo l’orecchio.
Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa sí che l’atto non vada a compimen-to. Allora il sogno si disfa e si scinde nei suoi elementi, ma si ricompone subito dopo, e ricomincia simile e mu-Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo tato: e questo senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno.
Devono essere passate le ventitre perché già è intenso l’andirivieni al secchio, accanto alla guardia di notte. È
un tormento osceno e una vergogna indelebile: ogni due, ogni tre ore ci dobbiamo alzare, per smaltire la grossa dose di acqua che di giorno siamo costretti ad as-sorbire sotto forma di zuppa, per soddisfare la fame: quella stessa acqua che alla sera ci gonfia le caviglie e le occhiaie, impartendo a tutte le fisionomie una deforme rassomiglianza, e la cui eliminazione impone ai reni un lavoro sfibrante.
Non si tratta solo della processione al secchio: è legge che l’ultimo utente del secchio medesimo vada a vuotar-lo alla latrina; è legge altresí, che di notte non si esca dalla baracca se non in tenuta notturna (camicia e mutande), e consegnando il proprio numero alla guardia. Ne segue, prevedibilmente, che la guardia notturna cercherà di esonerare dal servizio i suoi amici, i connazio-nali e i prominenti; si aggiunga ancora che i vecchi del campo hanno talmente affinato i loro sensi che, pur re-stando nelle loro cuccette, sono miracolosamente in grado di distinguere, soltanto in base al suono delle pareti del secchio, se il livello è o no al limite pericoloso, per cui riescono quasi sempre a sfuggire alla svuotatura.
Perciò i candidati al servizio del secchio sono, in ogni baracca, un numero assai limitato, mentre i litri com-plessivi da eliminare sono almeno duecento, e il secchio deve quindi essere vuotato una ventina di volte.
In conclusione, è assai grave il rischio che incombe su di noi, inesperti e non privilegiati, ogni notte, quando la necessità ci spinge al secchio. Improvvisamente la guardia di notte balza dal suo angolo e ci agguanta, si scara-bocchia il nostro numero, ci consegna un paio di suole Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo di legno e il secchio, e ci caccia fuori in mezzo alla neve, tremanti e insonnoliti. A noi tocca trascinarci fino alla latrina, col secchio che ci urta i polpacci nudi, disgusto-samente caldo; è pieno oltre ogni limite ragionevole, e inevitabilmente, con le scosse, qualcosa ci trabocca sui piedi, talché, per quanto questa funzione sia ripugnante, è pur sempre preferibile esservi comandati noi stessi piuttosto che il nostro vicino di cuccetta.
Cosí si trascinano le nostre notti. Il sogno di Tantalo e il sogno del racconto si inseriscono in un tessuto di immagini piú indistinte: la sofferenza del giorno, composta di fame, percosse, freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in una lingua incompresa. La processione del secchio e i tonfi dei calcagni nudi sul legno del pavimento si mutano in un’altra simbolica processione: siamo noi, grigi e identi-ci, piccoli come formiche e grandi fino alle stelle, serrati uno contro l’altro, innumerevoli per tutta la pianura fi-no all’orizzonte; talora fusi in un’unica sostanza, un im-pasto angoscioso in cui ci sentiamo invischiati e soffoca-ti; talora in marcia a cerchio, senza principio e senza fine, con vertigine accecante e una marea di nausea che ci sale dai precordi alla gola; finché la fame, o il freddo, o la pienezza della vescica non convogliano i sogni entro gli schemi consueti. Cerchiamo invano, quando l’incubo stesso o il disagio ci svegliano, di districarne gli elementi, e di ricacciarli separatamente fuori dal campo dell’attenzione attuale, in modo da difendere il sonno dalla lo-ro intrusione: non appena gli occhi si richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cervello mettersi in moto al di fuori del nostro volere; picchia e ronza, in-Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo capace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in nebbia grigia sullo schermo dei sogni.
Ma per tutta la durata della notte, attraverso tutte le alternanze di sonno, di veglia e di incubo, vigila l’attesa e il terrore del momento della sveglia: mediante la misteriosa facoltà che molti conoscono, noi siamo in grado, pur senza orologi, di prevederne lo scoccare con grande approssimazione. All’ora della sveglia, che varia da stagione a stagione ma cade sempre assai prima dell’alba, suona a lungo la campanella del campo, e allora in ogni baracca la guardia di notte smonta: accende le luci, si al-za, si stira, e pronunzia la condanna di ogni giorno: –
Aufstehen, – o piú spesso, in polacco: – Wstawaç.
Pochissimi attendono dormendo lo Wstawaç: è un momento di pena troppo acuta perché il sonno piú duro non si sciolga al suo approssimarsi. La guardia notturna lo sa, ed è per questo che non lo pronunzia con tono di comando, ma con voce piana e sommessa, come di chi sa che l’annunzio troverà tutte le orecchie tese, e sarà udito e obbedito.
La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi. «Alzarsi»: l’illusoria barriera delle coperte calde, l’esile corazza del sonno, la pur tormentosa evasio-ne notturna, cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti all’offesa, atrocemente nudi e vulnerabili. Incomincia un giorno come ogni giorno, lungo a tal segno da non potersene ragionevolmente concepire la fine, tanto freddo, tanta fame, tanta fatica ce ne separano: per cui è meglio concentrare l’attenzione e il desiderio sul blocchetto di pane grigio, che è piccolo, ma fra un’ora sarà certamente nostro, e per cinque minuti, finché non l’avremo divorato, costituirà tutto quanto la legge del luogo ci consente di possedere.
Allo Wstawaç si rimette in moto la bufera. L’intera baracca entra senza transizione in attività frenetica: Letteratura italiana Einaudi
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Primo Levi - Se questo è un uomo ognuno si arrampica su e giú, rifà la cuccetta e cerca contemporaneamente di vestirsi, in modo da non lasciare nessuno dei suoi oggetti incustodito; l’atmosfera si riempie di polvere fino a diventare opaca; i piú svelti fendono a gomitate la calca per recarsi al lavatoio e alla latrina prima che vi si costituisca la coda. Immediatamente entrano in scena gli scopini, e cacciano tutti fuori, picchiando e urlando.
Quando io ho rifatto la cuccia e mi sono vestito, scendo sul pavimento e mi infilo le scarpe. Allora mi si riaprono le piaghe dei piedi, e incomincia una nuova giornata.
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