Il vecchio scosse la testa. Ormai certe cose me le sono lasciate alle spalle.
Da anni. Dove gli uomini non riescono a vivere gli dèi non se la cavano certo meglio. Vedrà. Stare soli è il minore dei mali. Quindi spero che quello che ha appena detto non sia vero, perché essere in viaggio con l’ultimo degli dèi sarebbe terribile; spero proprio che non sia vero. Le cose andranno meglio quando non ci sarà più nessuno.
Davvero?
Certo.
Meglio per chi?
Per tutti.
Per tutti.
Certo. Staremo tutti meglio. Respireremo più facilmente. (p. 131) L’incontro con un «viandante» (p. 123) e la condivisione della mensa, con tutta la simbologia che questo gesto può evocare, hanno davvero valore solamente per il bambino. Il padre si affanna a spiegare al vecchio che solo la bontà del figlio, e non certo la propria strategia di sopravvivenza, ha permesso il momento di generosità; e il vecchio, presentato
«come un Buddha denutrito e consunto» (p. 128), dichiara apertamente:
«Non c’è nessun Dio e noi siamo i suoi profeti» (p. 129). Protraendo il paradosso fino al punto di trasformare la situazione reale dell’incontro in un’ipotesi antilogica: «Se fosse successo qualcosa e fossimo sopravvissuti e ci fossimo incontrati per la strada avremmo di che parlare. Ma non è così, quindi non abbiamo niente da dirci» (pp. 130-131). Sembra, questa, la risposta coerente all’assurda, ironicamente straziata, richiesta del padre per la concessione del cibo: «E in cambio cosa devo fare?», domanda il 194
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vecchio; e il padre risponde: «Spiegarci cosa è successo al mondo» (p.
126). Infine, tutto si riassume nella possibilità che il nome stesso, quel nome così carico di echi sacri, sia solo un’invenzione improvvisata per proteggere la propria identità: al padre che chiede «Si chiama veramente Ely?», il vecchio risponde seccamente «No» (p. 130).
È come se McCarthy avesse radunato il grande apparato simbolico della tradizione ebraico-cristiana per spremerne un senso filosofico ed esistenziale nuovo, posto al cospetto della più tremenda secolarizzazione.
Ed è una scelta che non onora soltanto la solida formazione e sensibilità religiosa dell’autore, ma anche la sfida insita in questo libro relativamente al valore e alla tenuta delle convenzioni della civiltà nel suo insieme.
Nel finale del racconto il figlio dichiara apertamente di non saper parlare Cormac
con Dio, e di preferire il dialogo con il padre. Come il padre vede Dio nel McCarthy,
La strada (2006)
figlio, e non nei padri,4 così il figlio vede Dio nella memoria del padre; e la sola volta in cui nomina Dio è per ringraziare, prima del pasto, le persone che avevano nascosto le provviste nel bunker, con una preghiera che conferma ancora una volta il desiderio di redenzione solidaristica della quale il bambino è portatore, e nel quale sono coinvolti non soltanto il presente dei vivi e il loro futuro, ma anche il passato ormai perduto dei trapassati.
Il bambino rimase seduto a fissare il piatto. Sembrava smarrito. L’uomo stava per parlare quando il bambino disse: Cari signori, grazie per le cose da mangiare e tutto il resto. Sappiamo che le avevate messe da parte per voi, e se voi ci foste ancora noi non mangeremmo niente, neanche se stessimo morendo di fame, e ci dispiace che non siate riusciti a mangiare queste cose ma speriamo che siate sani e salvi in Paradiso vicino a Dio. (pp. 111-112) La connotazione religiosa che accompagna il bambino, e che rappresenta una pista decisiva del significato dell’opera, è costituita da una facoltà epifanica – riconosciuta dal padre, testimoniata da Ely e in qualche modo intuita anche dagli altri umani incontrati, che sempre fissano il bambino come scorgendovi un’apparizione misteriosa – ed è costituita da una tensione verso il senso di cui il bambino è portatore.
La facoltà epifanica assume un significato più forte all’interno della polarità luce/tenebre che attraversa la narrazione: un dato naturale investito a sua volta di energia religiosa, rivelata per esempio dalla spasmodica preghiera-bestemmia pronunciata dal padre inginocchiato nella cenere:5
4 «Credi che i tuoi padri ti stiano guardando? Che ti valutino nel loro libro mastro? Secondo quale criterio? Non esiste nessun libro mastro e i tuoi padri sono morti e sepolti» (p. 149).
5 Fra le molte costanti, anche lessicali, che costituiscono l’equivalente stilistico della fossilizza-zione della realtà, quella della cenere è forse la più incessante: segno di distruzione e di annullamento, certo, e dimostrazione biblica della fragilità umana, ma anche, nella tradizione cristiana, premessa della rinascita, cioè della rielaborazione del peccato, del pentimento e della conversione. Il padre inginocchiato nella cenere, da questo punto di vista, appare un indizio esemplare.
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Poi si inginocchiò nella cenere. Alzò il viso verso il pallore del giorno. Ci sei?, sussurrò. Riuscirò a vederti prima o poi? Ce l’hai un collo per poterti strangolare? Ce l’hai un cuore? Sii stramaledetto per l’eternità, ce l’hai un’anima? Oh Dio, sussurrò. Oh Dio. (p. 9)
La luminosità del figlio verrà dichiarata esplicitamente dal padre una volta preso atto della propria morte imminente, raggiunta la consapevo-lezza che «quello era il posto dove sarebbe morto»:
L’uomo lo guardò venire avanti nell’erba e inginocchiarsi con la tazza d’acqua che era andato a prendergli. Aveva un alone di luce tutto intorno.
Prese la tazza e bevve e si sdraiò di nuovo. […]
Pietro Cataldi
Il bambino prese la tazza e si allontanò e quando si mosse la luce si mosse con lui. […] Steso a terra, [il padre] guardava il bambino davanti al fuoco.
Voleva avere la vista sgombra. Guardati intorno, disse. Non c’è profeta nella lunga storia della terra a cui questo momento non renda giustizia.
Di qualunque forma abbiate parlato, avevate ragione. (pp. 211-212) Sono radunati qui i segni del sacro ebraico-cristiano: il gesto di inginocchiarsi, l’aureola di luce, l’acqua e il fuoco, la vista sgombra, il rendere giustizia. E c’è lo svelamento delle profezie: quelle apocalittiche sulla fine del mondo, certo, ma anche quelle circa la salvezza veicolata dalla creatura.
La «forma» cui allude il padre è l’aspetto incenerito delle cose, ed è al tempo stesso la luce che emana dal figlio.
La luce è d’altra parte il «fuoco» che i due portano con sé, e che subito prima della scena appena riportata il padre ha infine svelato al figlio essere dentro di lui.6 Ed è la «lampada» che il bambino vuole tenere accesa a combattere «quell’oscurità senza nome» (p. 8).
La luce è la torcia che nella prima pagina guida il padre, all’interno di un angoscioso sogno dalla enigmatica carica allegorica, in una «caverna»
nelle viscere della terra, al cospetto di una perturbante creatura primitiva: seguendo il figlio, «che lo guidava tenendolo per mano» (p. 3). Un sogno che si ripeterà, liberato però dall’angoscia, alla vigilia della morte, lasciando trascolorare la realtà nell’immaginazione, cioè indicando la pista di un senso per quell’esperienza e per la vita:
Si svegliò nell’oscurità, tossendo leggermente. Rimase in ascolto. Il bambino era seduto accanto al fuoco, avvolto in una coperta, e lo guardava. Uno 6 «L’uomo gli prese la mano, ansimando. Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. […]‖ Non posso. ‖ Non ti preoccupare. Questo momento doveva arrivare da tempo. E adesso è arrivato. Continua ad andare verso sud. Fa’ tutto come lo facevamo insieme. […] ‖ Voglio restare con te. ‖ Non puoi. ‖ Ti prego. ‖ Non puoi. Devi portare il fuoco. ‖ Non so come si fa. ‖ Sì che lo sai. ‖ È vero? Il fuoco, intendo. ‖ Sì che è vero. ‖ E dove sta? Io non lo so dove sta. ‖ Sì che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo. ‖ Portami con te. Ti prego. ‖ Non posso. ‖ Ti prego, papà. ‖ Non ce la faccio. Non ce la faccio a tenere fra le braccia mio figlio morto. Credevo che ne sarei stato capace, e invece no. ‖ Hai detto che non mi avresti mai lasciato. ‖ Lo so. Mi dispiace. Hai tutto il mio cuore.
Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni. Lo sei sempre stato» (pp. 211-212).