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tragitto: una contraddizione che risulta incomprensibile al bambino, per il quale ogni incontro rappresenta un quesito fondamentale, il principale criterio di possibile distinzione fra buoni e cattivi che il padre gli ha pro-posto. La categoria dei cattivi non viene mai precisata del tutto, ma si in-tuisce sia costituita da tutti i superstiti che come l’esercito mostruoso delle cavallette dell’Apocalisse infestano la terra, «i denti impastati di carne umana» (p. 58). Dei buoni sappiamo invece che sono quelli che «conti-nuano a provarci. Non si arrendono mai» (p. 105). Vanno cercati, perché a loro è affidata la salvezza del bambino quando il padre non ci sarà più, e sono per il bambino identificati con «quelli che portano il fuoco» (p.

Alessandra

Ginzburg

64), una definizione che il padre ripropone più volte a sancire una missione di civiltà e di vita di cui loro, il figlio in particolare, sono portatori.

Il padre affronta con coraggio le tappe cruciali del viaggio. A volte Ulisse, assediato dalle ombre dei morti, a volte Robinson Crusoe quando trasporta a terra gli oggetti di una barca incagliata, lotta contro l’oblio dei colori, dei sapori e dei nomi. Si misura con il suo corpo sempre più malato e con il desiderio di morte che lo attanaglia a tradimento. La paura più grande è quella di dover tenere fra le braccia il figlio morto o di do-verlo uccidere per preservarlo da una fine abominevole, ma sa che non lo manderà «solo nelle tenebre» (p. 189).

Come coppia, padre e figlio insieme sono paragonati all’inizio a due lebbrosi, poi a due frati mendicanti mandati a cercare elemosine, ma vanno sempre più perdendo lo statuto umano per approdare a quello animale man mano che aumenta il disagio estremo della loro condizione. Sono

«due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana» (p.

100) o «come scimmie che spiluzzicano un formicaio» (p. 163), e si ri-trovano alla fine a percorrere «quel mondo senza vita come criceti sulle ruote» (p. 208).

3. Bambino

Il bambino, nato dopo l’Apocalisse, sorride raramente, quasi mai gioca.

Spesso è spaventato. Il dialogo con il padre è molte volte fatto di gesti muti, in cui si limita ad acconsentire con un «ok». Vorrebbe essere con la mamma, essere morto. La sua etica è sempre assoluta, senza riserve ed è la stessa dell’inno alla carità di Paolo di Tarso che «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» ( I Corinzi 13, 7). Ricorda al padre che

«se uno non mantiene le promesse piccole va a finire che non mantiene neanche quelle grandi» (p. 27). Di solito reagisce con un silenzio pro-lungato ai comportamenti del padre che non accetta perché incoerenti, ed alla fine gli dirà: «Nelle storie aiutiamo qualcuno, mentre in realtà non aiutiamo nessuno» (p. 204). È costantemente preoccupato per gli altri, in particolare per il bambino che intravede una volta fra le case e 182

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che immagina senza un papà (p. 66). Anche ottenebrato dalla fame, si fa scrupolo di mangiare il cibo altrui, per il quale ringrazia i morti «salvi in paradiso vicini a Dio» (p. 112). Nei rari incontri fatti lungo la strada, i suoi interventi mirano ogni volta a dare cibo e soccorso. Quasi sempre costretto dal padre a rinunciare a prestare aiuto, si guarda a lungo indietro: vuole vedere. Per il padre invece guardare equivale a morire. Lo sguardo del bambino è senza illusioni; è preoccupato però che il padre possa men-tirgli «su questa cosa del morire» (p. 78). La domanda iniziale «Noi mo-riremo?» (p. 8) ritorna incessante in più punti del romanzo, quasi a scan-dire il tempo della narrazione, mentre la vita si assottiglia come il corpo del bambino, sempre più simile ad un animale in letargo oppure ad un superstite di un campo di concentramento «affamato, esausto, sconvolto Cormac

dalla paura» (p. 90). La paura cresce in lui in modo esponenziale a mano McCarthy,

La strada (2006)

a mano che l’evidenza dell’orrore del mondo si fa più palese. Posto di fronte al cannibalismo che non risparmia i bambini, e dunque uccide ogni regola ed anche il futuro, il bambino è indifeso, «il visetto sporco deformato dalla paura» (p. 150). Sempre più consapevole della condizione di morte e desolazione che lo circonda, sogna mondi paralleli, dove altri portano il fuoco o un altrove (Dio?) a cui dare notizia della loro presenza.

Pur se spaventato, non rinuncia però a sentire la paura altrui. Quando il padre commenta: «Non tocca a te preoccuparti di tutto», il bambino risponde «Sì, tocca a me» (p. 197), svelando così la sua segreta missione sacrificale e salvifica. E infatti il padre sempre più vicino alla morte lo vede «radioso come un tabernacolo in quella desolazione» (p. 208). Il bambino che lo assiste nelle sue ultime ore «aveva un alone di luce tutto intorno» (p. 210), luce che si muove con lui. Altrove i capelli del bambino erano stati paragonati «ad un calice d’oro, buono per ospitare un dio»

(p. 58).

4. Dio e i suoi profeti

Se molti riferimenti al bambino contengono una connotazione religiosa diretta o metaforica, il rapporto del padre con Dio è sempre conflittuale: si passa dalla visione iniziale del territorio «arido, muto, senza dio» (p.

4) alla maledizione più disperata che tante vittime innocenti nel corso della storia hanno gridato, quando inginocchiato nella cenere che copre ormai il mondo esclama: «Ci sei? […] Riuscirò a vederti prima o poi?

Ce l’hai un collo per poterti strangolare? Ce l’hai un cuore? Sii stramaledetto per l’eternità, ce l’hai un’anima? Oh Dio. Oh Dio» (p. 9). Anche quando ha paura di dover sparare al bambino per preservarlo da prove insopportabili, il pensiero che si affaccia è: «Bestemmia Dio e muori»

(p. 87). Ma è soprattutto l’incontro con il viandante, l’unico vero interlocutore umano incontrato nel corso del viaggio, che segnala l’appro-183

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fondimento del tema religioso. Il viandante è cencioso, lacero, ributtante.

Il bambino lo protegge da subito con forza, lo nutre «come un avvoltoio ferito caduto in mezzo alla strada» (p. 124). Il padre acconsente di ma-lavoglia, pone condizioni fra cui, imprevista, l’aspettativa che possa «spie-garci cosa è successo al mondo» (p. 126). È il nome del vecchio il segnale decisivo per riconoscere la sua identità nascosta. Il viandante dice infatti di chiamarsi Ely, come Elia, uno dei profeti biblici più significativi, quello che resuscita il figlio della vedova distendendosi sul cadavere del bambino ( Re 17, 21). Qui, in un ennesimo ribaltamento di prospettiva, è il bambino a salvare il profeta, diventato per antonomasia colui che non Alessandra

Ginzburg

sa, che non vede e soprattutto non crede: «Non c’è nessun Dio e noi siamo i suoi profeti» (p. 129). È ora l’uomo a proporre al vecchio la funzione salvifica del bambino: «E se le dicessi che è un dio?» (p. 131).

Ma il tempo dell’attesa del Messia è tramontato per sempre, sembra suggerire il vecchio: «Spero che quello che ha appena detto non sia vero, perché essere in viaggio con l’ultimo degli dei sarebbe terribile; spero proprio che non sia vero. Le cose andranno meglio quando non ci sarà più nessuno» (p. 131). Il pensiero del vecchio è quello che la morte stessa debba morire: «Quando ce ne saremo andati tutti qui resterà solo la morte, e anche lei avrà i giorni contati. Vagherà per la strada senza niente da fare e nessuno a cui farlo. Dirà: Dove sono finiti tutti?»

(p. 132). Alla fine il vecchio si allontana, «nero, curvo, secco come un ragno» (p. 132), ed il bambino resta in silenzio, apparentemente rassegnato. Non si volta. Sarà il padre a ritornare con il pensiero alle profezie, poco prima di morire: «Non c’è profeta nella lunga storia della terra a cui questo momento non renda giustizia. Di qualunque forma abbiate parlato, avevate ragione» (p. 211).

5. Sogni

Il romanzo inizia con un sogno del padre, che si vede in una caverna, guidato dal bambino (p. 3). Accanto al lago all’interno della caverna, la creatura (forse preistorica?) che lo guarda con occhi ciechi e poi si allontana mugolando – quasi una citazione letterale del Viaggio al centro della Terra di Verne – sembra la rappresentazione di un’umanità diventata cieca («il mondo morente abitato dai nuovi ciechi»: p. 15), priva com’è della luce della bontà di cui è portatore il bambino. Un sogno simile ritornerà a chiusura del libro, subito prima della morte del padre: ora è il bambino a tenere in mano una candela che illumina la caverna: «In quel corridoio freddo avevano raggiunto il punto di non ritorno, e soltanto la luce che si portavano dentro misurava la distanza dall’inizio» (p. 213). Quasi tutti gli altri sogni narrati sono del padre. Molti riportano sapori dimenticati, colori che non esistono più, e sono richiami di morte che si moltiplicano 184

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insieme alla sua stanchezza di vivere, quando inizia a fare «sogni floridi da cui detestava svegliarsi. Cose che il mondo non conosceva più […] lei che attraversava il giardino» (p. 101). Nell’imminenza della morte «vecchi sogni usurpavano il mondo reale» (p. 132).

Il bambino invece sogna raramente e non ama raccontare i suoi sogni.

Una volta descrive un’immagine inquietante, «un pinguino a molla a cui nessuno aveva dato la carica» (p. 29); in un altro sogno anticipa la morte del padre: «io piangevo forte e tu non ti svegliavi» (p. 139). Tace i suoi sogni, spiega, perché «succede sempre qualcosa di brutto. Ma tu hai detto che andava bene così, perché i sogni belli non portano bene» (p. 205).

Infatti il padre gli aveva detto: «Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, Cormac

vorrà dire che ti sei arreso. E tu non ti puoi arrendere, non lo permetterò»

McCarthy,

La strada (2006)

(p. 144). Sogni come illusioni, dunque, mentre i sogni giusti sono quelli di pericolo, se si eccettuano gli incubi simili a quello da cui il padre si sveglia urlando, in cui vede il bambino steso su un tavolo di obitorio: «Quello che riusciva a sopportare di giorno di notte diventava insopportabile»

(p. 99).

6. Umanità

Nel mondo che segue l’Apocalisse sembrano esistere, salvo pochissime eccezioni, soltanto sette sanguinarie che si sterminano a vicenda: i nuovi ciechi, uomini senza fede che girano incappucciati con maschere antigas.

L’uomo sa che si sono costituite delle comuni con tanto di barricate (p.

61), ma nel corso del viaggio l’orrore non ha mai fine. Vedranno un muro

«con un fregio di teste umane» (p. 69) ed incontreranno un’orda cenciosa: i cattivi, falangi di esseri barbuti, che trascinano schiavi in catene. Il bambino commenta: «ce ne sono tanti di questi cattivi» (p. 71). Ancora più spaventosa, la scoperta della cantina di una villa che sembra la descrizione di un ospedale psichiatrico o di un lager. In quel luogo uomini e donne nudi aspettano il loro turno per essere mangiati dai loro aguzzini che hanno esaurito le scorte (p. 85). Ovunque, «pronti a mangiarti i figli sotto gli occhi», «predoni anneriti […] come avventori negli spacci dell’inferno»

Are sens