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Il bambino rimase seduto a fissare il piatto. Sembrava smarrito. L’uomo stava per parlare quando il bambino disse: Cari signori, grazie per le cose da mangiare e tutto il resto. Sappiamo che le avevate messe da parte per voi, e se voi ci foste ancora noi non mangeremmo niente, neanche se stessimo morendo di fame, e ci dispiace che non siate riusciti a mangiare queste cose ma speriamo che siate sani e salvi in Paradiso vicino a Dio. (pp. 111-112) La connotazione religiosa che accompagna il bambino, e che rappresenta una pista decisiva del significato dell’opera, è costituita da una facoltà epifanica – riconosciuta dal padre, testimoniata da Ely e in qualche modo intuita anche dagli altri umani incontrati, che sempre fissano il bambino come scorgendovi un’apparizione misteriosa – ed è costituita da una tensione verso il senso di cui il bambino è portatore.

La facoltà epifanica assume un significato più forte all’interno della polarità luce/tenebre che attraversa la narrazione: un dato naturale investito a sua volta di energia religiosa, rivelata per esempio dalla spasmodica preghiera-bestemmia pronunciata dal padre inginocchiato nella cenere:5

4 «Credi che i tuoi padri ti stiano guardando? Che ti valutino nel loro libro mastro? Secondo quale criterio? Non esiste nessun libro mastro e i tuoi padri sono morti e sepolti» (p. 149).

5 Fra le molte costanti, anche lessicali, che costituiscono l’equivalente stilistico della fossilizza-zione della realtà, quella della cenere è forse la più incessante: segno di distruzione e di annullamento, certo, e dimostrazione biblica della fragilità umana, ma anche, nella tradizione cristiana, premessa della rinascita, cioè della rielaborazione del peccato, del pentimento e della conversione. Il padre inginocchiato nella cenere, da questo punto di vista, appare un indizio esemplare.

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Poi si inginocchiò nella cenere. Alzò il viso verso il pallore del giorno. Ci sei?, sussurrò. Riuscirò a vederti prima o poi? Ce l’hai un collo per poterti strangolare? Ce l’hai un cuore? Sii stramaledetto per l’eternità, ce l’hai un’anima? Oh Dio, sussurrò. Oh Dio. (p. 9)

La luminosità del figlio verrà dichiarata esplicitamente dal padre una volta preso atto della propria morte imminente, raggiunta la consapevo-lezza che «quello era il posto dove sarebbe morto»:

L’uomo lo guardò venire avanti nell’erba e inginocchiarsi con la tazza d’acqua che era andato a prendergli. Aveva un alone di luce tutto intorno.

Prese la tazza e bevve e si sdraiò di nuovo. […]

Pietro Cataldi

Il bambino prese la tazza e si allontanò e quando si mosse la luce si mosse con lui. […] Steso a terra, [il padre] guardava il bambino davanti al fuoco.

Voleva avere la vista sgombra. Guardati intorno, disse. Non c’è profeta nella lunga storia della terra a cui questo momento non renda giustizia.

Di qualunque forma abbiate parlato, avevate ragione. (pp. 211-212) Sono radunati qui i segni del sacro ebraico-cristiano: il gesto di inginocchiarsi, l’aureola di luce, l’acqua e il fuoco, la vista sgombra, il rendere giustizia. E c’è lo svelamento delle profezie: quelle apocalittiche sulla fine del mondo, certo, ma anche quelle circa la salvezza veicolata dalla creatura.

La «forma» cui allude il padre è l’aspetto incenerito delle cose, ed è al tempo stesso la luce che emana dal figlio.

La luce è d’altra parte il «fuoco» che i due portano con sé, e che subito prima della scena appena riportata il padre ha infine svelato al figlio essere dentro di lui.6 Ed è la «lampada» che il bambino vuole tenere accesa a combattere «quell’oscurità senza nome» (p. 8).

La luce è la torcia che nella prima pagina guida il padre, all’interno di un angoscioso sogno dalla enigmatica carica allegorica, in una «caverna»

nelle viscere della terra, al cospetto di una perturbante creatura primitiva: seguendo il figlio, «che lo guidava tenendolo per mano» (p. 3). Un sogno che si ripeterà, liberato però dall’angoscia, alla vigilia della morte, lasciando trascolorare la realtà nell’immaginazione, cioè indicando la pista di un senso per quell’esperienza e per la vita:

Si svegliò nell’oscurità, tossendo leggermente. Rimase in ascolto. Il bambino era seduto accanto al fuoco, avvolto in una coperta, e lo guardava. Uno 6 «L’uomo gli prese la mano, ansimando. Devi andare avanti, disse. Io non ce la faccio a venire con te. Ma tu devi continuare. […]‖ Non posso. ‖ Non ti preoccupare. Questo momento doveva arrivare da tempo. E adesso è arrivato. Continua ad andare verso sud. Fa’ tutto come lo facevamo insieme. […] ‖ Voglio restare con te. ‖ Non puoi. ‖ Ti prego. ‖ Non puoi. Devi portare il fuoco. ‖ Non so come si fa. ‖ Sì che lo sai. ‖ È vero? Il fuoco, intendo. ‖ Sì che è vero. ‖ E dove sta? Io non lo so dove sta. ‖ Sì che lo sai. È dentro di te. Da sempre. Io lo vedo. ‖ Portami con te. Ti prego. ‖ Non posso. ‖ Ti prego, papà. ‖ Non ce la faccio. Non ce la faccio a tenere fra le braccia mio figlio morto. Credevo che ne sarei stato capace, e invece no. ‖ Hai detto che non mi avresti mai lasciato. ‖ Lo so. Mi dispiace. Hai tutto il mio cuore.

Da sempre. Tu sei il migliore fra i buoni. Lo sei sempre stato» (pp. 211-212).

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sgocciolio d’acqua. Una luce che si affievoliva. Vecchi sogni usurpavano il mondo reale. Lo sgocciolio era nella caverna. La luce, una candela che il bambino teneva in un cono misura-anelli di rame battuto. La cera colava sulla pietra. Impronte di creature sconosciute sul loess necrotizzato. In quel corridoio freddo avevano raggiunto il punto di non ritorno, e soltanto la luce che si portavano dietro misurava la distanza dall’inizio. (p. 213) Se la superficie del racconto rappresenta il padre che protegge e guida il figlio, da un punto di vista più profondo ed essenziale, fin dall’inizio (come è rivelato nei sogni) il bambino guida il padre e gli illumina la strada. Se un senso c’è, sta in questa guida e nella sua luce, che occupano la

«caverna» della vita e il «corridoio» che porta alla morte.

Il bambino è la guida profonda del senso anche perché in lui il desi-Cormac

derio di sopravvivere non prevale sul bisogno di andare incontro alla vita McCarthy,

La strada (2006)

e alla relazione con gli altri. Oltre che dal desiderio di aiutare gli altri e di condividere con loro la strada, il figlio è mosso dal bisogno di comu-nicare, dalla ricerca di un contatto. E se il padre riesce, finché è forte, a reprimere e ridurre al minimo questo bisogno, semplificando sempre le richieste di senso che filtrano dalle domande del figlio, una volta sopraffatto dalla malattia e in prossimità della morte deve a sua volta cedere a dialoghi finalmente capaci di toccare l’essenza della loro condizione e cioè il senso della vita e della morte (cfr. soprattutto le pp. 183-187, 203-205 e 211-212). In questo finale slargarsi del rapporto fra i due protagonisti, trovano posto due tentativi di comunicazione con l’esterno compiuti dal figlio, che vorrebbe scrivere sulla sabbia un messaggio per i buoni, e che ottiene dal padre il lancio di un razzo7 luminoso nel cielo alla ricerca di una comunicazione: con qualche altro vivente, e anche, come il padre indovina, con una divinità; capace di dare un senso alla loro solitudine, dal momento che il padre ha appena negato la possibilità che altre persone siano vive al di fuori della terra, sentendosi rispondere dal figlio «Non so cosa ci stiamo a fare qui» (p. 186): una possibile, inedita messa in discus-sione della scelta paterna.

[Sparato il razzo] L’uomo guardò il viso del bambino, rivolto in su.

Da molto lontano non lo vedrebbero, vero, papà?

Chi?

Chiunque.

No. Da molto lontano, no.

7 Il dialogo fra il padre e il bambino sul lanciarazzi trovato nella barca è ancora una volta rivelatore delle diverse prospettive dei due protagonisti: come il padre deve confermare alle in-dovinate domande del figlio, per lui si tratta di un oggetto utile nella prospettiva di sparare contro qualcuno, cioè di difendersi dall’aggressione di un nemico; mentre per il bambino l’utilità starebbe nel fare segnali in cerca di un contatto, cioè di trovare dei sodali. E il lanciarazzi contiene in sé tanto il tema della luce quanto quello del fuoco, con le relative, com-plesse valenze.

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Se volessimo far capire a qualcuno dove siamo.

Ai buoni, intendi?

Sì. O a qualcuno a cui vogliamo dire che siamo qui.

Tipo chi?

Non lo so.

Tipo Dio?

Sì, per esempio, una cosa così. (p. 187)

3. La scelta della madre e quella del padre

Posto di fronte alle necessità immediate dell’esistenza, il rapporto fra Pietro Cataldi

padre e figlio si riduce, come ogni altra questione posta in questa opera, all’essenziale: il padre è chiamato alla funzione primaria di proteggere il figlio dalle minacce dell’ambiente circostante, inclusi gli altri umani. Sono cadute tutte le deleghe che nel tempo storico sono commesse alla società.

Non c’è struttura parentale, non c’è scuola o altra istituzione, non c’è più nulla che tuteli la fragilità biologica del bambino, che si frapponga tra lui e il nulla che ininterrottamente si affaccia per divorarlo.

Il figlio è per il padre non soltanto l’unica ragione di vita, ma la ragione della vita. Se il figlio morisse, il padre non vorrebbe più vivere (cfr. pp. 8-9); ma non solo, secondo l’interpretazione di fatto riduttiva che il bambino offre di questa confessione, perché vorrebbe restare sempre con lui, anche spostandosi dal mondo dei vivi a quello dei morti, ma perché – come abbiamo visto – sarebbe venuto definitivamente meno, con il solo spegnersi di quel respiro, il respiro del mondo; sarebbe divenuta muta la voce di Dio.

Il lettore scopre presto che la scommessa del padre – sopravvivere nel vuoto assoluto – si è contrapposta, in un momento critico del passato, a quella diversa della madre: morire piuttosto che vivere in un mondo ri-dotto a cenere. Benché posto al di fuori del tempo narrato nel romanzo, quel dissidio, con le diverse risoluzioni assunte dai genitori del bambino, costituisce un potente interrogativo posto al lettore. Formula anzi, a ben vedere, la posta filosofica in gioco, alla quale il lettore dovrà infine dare una risposta. Dal momento che un evento imprecisato ha avvicinato il re-gno dei morti a quello dei vivi, stabilendo una angosciosa osmosi della quale i due sopravvissuti non cessano di fare esperienza, è stato necessario scegliere se abbarbicarsi comunque al pulsare biologico della vita, oppure tutelare proprio con la morte ciò che è stato chiamato “vita” dall’umanità, e non accettarne una versione diversa.

Are sens