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right. She said that the breath of God was his breath yet though it pass from man to man through all of time.7 (p. 286)

Il figlio parla col padre morto, così come questi, prima di morire, gli aveva detto di fare («If I’m not here you can still talk to me. You can talk to me and I’ll talk to you. You’ll see»,8 p. 279). L’eredità del padre, la trasmissione del valore da padre a figlio e da uomo a uomo, fonda il patto fra le generazioni e la nascita della civiltà: è questo il respiro di Dio.

Nel nuovo presente successivo alla catastrofe il passato non serve a nulla e si è come rinsecchito, è diventato esso stesso un deserto da cui si salvano solo pochi frammenti di memorie: il padre rievocato da una casa incontrata lungo la strada in cui il protagonista ha vissuto da bambino, uno zio con cui da ragazzo andava in barca a pescare, la moglie, che ritorna spesso anche nei sogni portando sprazzi di sensualità e di vi-talità ma anche prospettando un’alternativa inquietante, tragicamente negativa (avrebbe voluto che la famiglia scegliesse il suicidio collettivo e alla fine ha lasciato marito e figlio per darsi la morte). Lui invece ha deciso di resistere, di portare il bambino al sud per sottrarlo ai rigori di un altro inverno a cui non sarebbero sopravvissuti; ma deve lottare non solo con la stanchezza, la fame, il freddo e i bruti che di volta in volta incontra ma anche contro la tentazione della morte, che gli si è insinuata nell’animo e che l’immagine della moglie di continuo gli ripropone come soluzione possibile, e contro la malattia che lentamente lo consuma sino a ucciderlo.

Fra i sogni del padre, quello iniziale evoca un mondo primigenio, in cui ci sono i segni di un’epoca più antica dell’uomo e del trascorrere inin-terrotto del tempo («Tolling in the silence the minutes of the earth and 6 «Non c’è nessun Dio e noi siamo i suoi profeti» (p. 129).

7 «Lui ci provava a parlare con Dio ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno» (p. 217).

8 «Quando non ci sarò più potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me e io ti risponderò.

Vedrai» (p. 212).

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the hours and the days of it and the years without cease»,9 p. 3). Egli avanza in una caverna piena di concrezioni calcaree, guidato dal bambino che lo tiene per mano (nella realtà è in effetti la prospettiva del figlio a tenerlo in vita e a spingerlo in avanti), finché giungono a una grande sala di pietra dove si apre un lago nero e antico. Sulla sponda opposta sta una creatura con le fauci grondanti, con occhi bianchissimi e ciechi come le uova dei ragni. Ma l’aspetto straordinario di questo animale è nel suo essere traslucido e come trasparente: si vedono le sue viscere, il suo cuore vivo, il cervello che pulsa in una campana di vetro opaco. È una bestia primeva e insieme fantascientifica; nasce dal cuore della roccia e della terra ma ha i caratteri a cui gli effetti speciali della cinematografia con-temporanea ci hanno abituato; è preistorica e ipermoderna. Una lettura Cormac

lacaniana del sogno ha visto in questa creatura «un’immagine della Cosa McCarthy,

La strada (2006)

del godimento», il trionfo della Cosa sul simbolo e sulla Cultura, riportata al suo fondamento selvaggio ed eccentrico al linguaggio.10 Credo piuttosto che inizio e fine si corrispondano, e non si possa leggere la prima lassa senza far riferimento all’ultima, in cui il narratore, con un improvviso salto narrativo, abbandona la vicenda narrata e rievoca ancora una specie animale, questa volta i salmerini un tempo presenti nei torrenti di montagna. Essi avevano sul dorso dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire: «Maps and mazes. Of a thing which could not be put back. Not be made right again. In the deep glens where they lived all things were older than man and they hummed of mystery»11 (p. 287).

Quella creatura minacciosa, primitiva e modernissima, che sopravvive attraverso le diverse fasi della storia della terra, prima e dopo l’avvento dell’uomo sino a oggi, esprime una stortura originaria e un mistero a essa connaturato: questa stortura è il mistero del male, che preesiste al linguaggio e alla civiltà, ma continua a vivere anche dopo di essi, sin nel vivo dell’epoca ipermoderna. Essa può provocare distruzioni immani come quella che ha incenerito il mondo in cui si aggirano i due protagonisti.

La catastrofe insomma ha un cuore antico e motivazioni attuali.

Questo libro ci racconta come resisterle, e in nome di cosa, dopo la morte di Dio e la scomparsa delle ideologie complessive. La pulsione vitale

– il fuoco della vita – è tutto ciò che ci resta; non è molto ma lo spirito di sacrificio che essa esige, e la trasmissione di questo valore da una genera-zione all’altra, può essere forse il fondamento di una nuova civiltà.

E questa è un’altra ragione per cui La strada merita di restare nel canone occidentale: a futura memoria di una possibilità.

9 «I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta» (p. 3).

10 Recalcati, Cosa resta del padre? , cit., p. 156.

11 «Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero»

(pp. 217-218).

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Alessandra Ginzburg

Il quinto angelo sonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l’atmosfera.

( Apocalisse, 9.1)

Lo sfondo di questo romanzo doloroso e sapienziale è quello del viaggio che un padre compie con il figlio in un universo che si immagina devastato da qualche catastrofico evento – forse una spaventosa esplosione nucleare Alessandra

– che ha posto fine a quasi tutte le forme di vita conosciute. Pochi super-Ginzburg

stiti, resi malvagi dalla lotta per la sopravvivenza in queste condizioni estre-me, si confrontano in mortali ecatombi. La terra, avvolta in un buio pe-renne, qua e là illuminato dagli incendi che ovunque bruciano gli alberi ormai morti, non offre più cibo: sparite le sementi e le coltivazioni, soltanto il cibo conservato in scatola, rintracciato a fatica, può, qualche volta, offrire al protagonista adulto un lontano ricordo dei sapori di un tempo.

Il bambino, nato quando la catastrofe è già avvenuta, ignora il mondo della Natura, ma ha serbato nella mente un sembiante di cane, scorto di sfuggita quando ancora la madre non se ne era andata. E proprio il lontano abbaiare di un cane, così come la visione fuggevole di un coetaneo intravisto dal bambino segnaleranno nel corso del viaggio l’esistenza dei

«buoni», che – prima di tutto – non sono dediti al cannibalismo di ogni embrionale forma di vita. Padre e figlio sono diretti verso il mare, alla ricerca di calore o di altri superstiti. L’uomo sa di essere condannato da una malattia all’ultimo stadio e per questo motivo avanza senza darsi tregua nella speranza di mettere in salvo il bambino. Questi deve essere salvato ad ogni costo forse perché portatore intrinseco della bontà, l’unica forma possibile, sembra dirci l’autore, di salvezza per un’umanità che appare comunque condannata alla sparizione.

È dunque una nuova Apocalisse quella che l’autore ci propone, che richiama alla mente l’effetto devastante delle sette trombe che vengono suonate dagli angeli dopo la rottura del settimo sigillo da parte dell’Agnello: «Un terzo della terra fu arso, un terzo degli alberi andò bruciato e ogni erba verde si seccò […]. Un terzo del mare divenne sangue, un terzo delle creature che vivono nel mare morì ed un terzo andò distrutto [… ].

Un terzo delle acque si mutò in assenzio, e molti uomini morirono per quelle acque, perché erano diventate amare […]. Un terzo degli astri fu colpito e si oscurò; il giorno perse un terzo della sua luce e la notte ugualmente» ( Apocalisse, 8, 7-12).

Vi è in realtà un unico accenno all’Apocalisse: una botola aperta che sembra «una tomba spalancata nel giorno del giudizio, in qualche dipinto apocalittico» (p. 118), ma i riferimenti religiosi sono numerosi, quasi a 180

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voler indicare un percorso sotterraneo che si può rintracciare nelle pieghe del testo. Anche i personaggi, che sono pochi ed essenziali, e le parole chiave più rappresentative rimandano a questa ipotesi di lettura, che sembra tuttavia risolversi in un drammatico rovesciamento di senso della cui portata ci si rende conto solo al termine del libro.

1. Madre

In questo universo le donne sono quasi tutte scomparse, e l’uomo e il bambino si aggirano soli. Un tempo è esistita una madre che ha partorito il bambino. Quando tutti gli orologi si sono fermati alle 1 e 17, la donna era incinta. Da subito ha rifiutato di proseguire a vivere in quelle condi-Cormac

zioni. La differenza fra lei e l’uomo è subito netta: la sua opinione è che McCarthy,

La strada (2006)

non sono dei sopravvissuti, come lui afferma, bensì dei «morti viventi in un film dell’orrore» (p. 43). E come una pallida sposa (una zombie sospesa fra la vita e la morte?) lui la sognerà «coi capezzoli incrostati di argilla chiara e le costole dipinte di bianco» (p. 14). La madre – il cui cuore si è spezzato quando è nato il bambino – non riesce più a provare quel dolore che è l’ultimo baluardo rispetto alla perdita di umanità che è seguita alla catastrofe, e sceglie il richiamo della morte, l’unico amante in grado di darle ciò che desidera, ossia «il nulla eterno» (p. 44). La madre rinuncia a portare con sé il bambino nella morte, ma deride con parole di scherno il progetto di metterlo in salvo: «Le persone che non hanno nessuno fa-rebbero bene ad imbastirsi qualche fantasma decente. Dargli il soffio della vita e convincerlo a proseguire con parole d’amore. Offrirgli ogni minima briciola e proteggerlo dal male con il proprio corpo» (p. 45). È

un commiato freddo, il suo, che non include neppure un saluto al figlio.

Soltanto alla fine del viaggio una figura di madre comparirà ad accogliere il bambino ormai orfano, ma questa presenza non avrà nulla di veramente catartico, perché l’unico dialogo pensabile resterà per lui quello interno con il padre.

2. Padre

È dunque un padre che è anche una madre l’uomo che accompagna il bambino, che lo nutre, lo riscalda come può, lo abbraccia e gli parla. Il bambino non è soltanto la sua unica ragione di vita e la sua garanzia, è per lui un oggetto di fede, l’unico scampato alla morte del mondo e dei suoi affetti: «Se non è lui il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato»

(p. 4). Proteggerlo dai cattivi, gli dice, è il compito che Dio gli ha assegnato: «Chiunque ti tocchi, io lo ammazzo» (p. 59). Mentre racconta al bambino storie di coraggio e di giustizia, più volte si trova nella condizione di non aiutare o addirittura uccidere i pochi esseri che sfiorano lungo il 181

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