La strada (2006)
viamo comporti l’assenza di stile, e McCarthy ci smentisce. Se un posto La strada merita nel canone contemporaneo, è anche perché ci ricorda che nella narrativa occidentale non esiste una ricetta unica, e che, per esempio, la tradizione italiana dei grandi narratori che sono pure grandi prosatori (da Verga a Gadda, da Tozzi a Volponi o Calvino), interrottasi una trentina d’anni fa, non è poi così inattuale, così isolata e provinciale, come ci hanno detto.
2.
Il racconto è focalizzato sul padre, di cui si riportano frammenti di sogni e lampi di pensieri e sensazioni, con passaggi improvvisi dalla terza alla prima persona. Il padre non ha una spiegazione del mondo da offrire al figlio.5 L’educazione del bambino, a cui ha insegnato a leggere e a cui lui stesso la sera racconta delle storie, si riduce ad aspetti elementari: proteggerlo a ogni costo, rappresentare il duro principio di realtà, rassicurarlo circa l’esistenza dei «buoni», infondendogli la coscienza della loro diversità dai bruti (dai «cattivi») che incontrano e del «fuoco» di cui devono sentirsi portatori («noi siamo portatori del fuoco», gli dice più volte). I libri che ha letto non gli servono: di fronte a una biblioteca incendiata, con scaffali ribaltati e libri anneriti nelle pozzanghere, pensa che si tratta unicamente di menzogne allineate rigo per rigo («the lies arranged in their thousands row on row», p. 187). Ha solo un’abilità manuale, qualche conoscenza tecnica e professionale (era un medico), brandelli di una religione che lo inducono a voler credere che nel bambino possa incarnarsi il verbo di Dio («If he is not the word of God God never spoke», p. 5) e perciò la 5 M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, nell’ambito di una lettura lacaniana del romanzo, assume la figura del padre come testimonianza ed esempio di come possa essere esercitata la paternità da parte di un genitore
«disincantato», in un’epoca in cui la vita «non è più illuminata dai fari dell’ideologia» (pp.
162-163). «Il mondo di La strada è un mondo senza Padre, senza Dio-Padre» (p. 158).
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possibilità di una rinascita dei valori e della civiltà. «There is no God and we are his prophets»,6 dice un vecchio in cui si imbattono. Non c’è nessun Dio, nessuna religione definita, nessuna garanzia della verità e dei valori; ma questi ultimi vanno comunque salvati e testimoniati. In questo senso padre e figlio fanno parte dei «buoni» e sono portatori del fuoco e profeti di Dio. Alla fine, dopo la morte del padre, nella nuova famiglia, la donna che lo ha adottato parla al bambino di Dio. E allora anche lui prova a parlare con Dio, ma finisce invece col parlare con il padre: He tried to talk to God but the best thing was to talk to his father and Romano
he did talk to him and he didnt forget. The woman said that was all Luperini
right. She said that the breath of God was his breath yet though it pass from man to man through all of time.7 (p. 286)
Il figlio parla col padre morto, così come questi, prima di morire, gli aveva detto di fare («If I’m not here you can still talk to me. You can talk to me and I’ll talk to you. You’ll see»,8 p. 279). L’eredità del padre, la trasmissione del valore da padre a figlio e da uomo a uomo, fonda il patto fra le generazioni e la nascita della civiltà: è questo il respiro di Dio.
Nel nuovo presente successivo alla catastrofe il passato non serve a nulla e si è come rinsecchito, è diventato esso stesso un deserto da cui si salvano solo pochi frammenti di memorie: il padre rievocato da una casa incontrata lungo la strada in cui il protagonista ha vissuto da bambino, uno zio con cui da ragazzo andava in barca a pescare, la moglie, che ritorna spesso anche nei sogni portando sprazzi di sensualità e di vi-talità ma anche prospettando un’alternativa inquietante, tragicamente negativa (avrebbe voluto che la famiglia scegliesse il suicidio collettivo e alla fine ha lasciato marito e figlio per darsi la morte). Lui invece ha deciso di resistere, di portare il bambino al sud per sottrarlo ai rigori di un altro inverno a cui non sarebbero sopravvissuti; ma deve lottare non solo con la stanchezza, la fame, il freddo e i bruti che di volta in volta incontra ma anche contro la tentazione della morte, che gli si è insinuata nell’animo e che l’immagine della moglie di continuo gli ripropone come soluzione possibile, e contro la malattia che lentamente lo consuma sino a ucciderlo.
Fra i sogni del padre, quello iniziale evoca un mondo primigenio, in cui ci sono i segni di un’epoca più antica dell’uomo e del trascorrere inin-terrotto del tempo («Tolling in the silence the minutes of the earth and 6 «Non c’è nessun Dio e noi siamo i suoi profeti» (p. 129).
7 «Lui ci provava a parlare con Dio ma la cosa migliore era parlare con il padre, e infatti ci parlava e non lo dimenticava mai. La donna diceva che andava bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno» (p. 217).
8 «Quando non ci sarò più potrai comunque parlarmi. Potrai parlare con me e io ti risponderò.
Vedrai» (p. 212).
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the hours and the days of it and the years without cease»,9 p. 3). Egli avanza in una caverna piena di concrezioni calcaree, guidato dal bambino che lo tiene per mano (nella realtà è in effetti la prospettiva del figlio a tenerlo in vita e a spingerlo in avanti), finché giungono a una grande sala di pietra dove si apre un lago nero e antico. Sulla sponda opposta sta una creatura con le fauci grondanti, con occhi bianchissimi e ciechi come le uova dei ragni. Ma l’aspetto straordinario di questo animale è nel suo essere traslucido e come trasparente: si vedono le sue viscere, il suo cuore vivo, il cervello che pulsa in una campana di vetro opaco. È una bestia primeva e insieme fantascientifica; nasce dal cuore della roccia e della terra ma ha i caratteri a cui gli effetti speciali della cinematografia con-temporanea ci hanno abituato; è preistorica e ipermoderna. Una lettura Cormac
lacaniana del sogno ha visto in questa creatura «un’immagine della Cosa McCarthy,
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del godimento», il trionfo della Cosa sul simbolo e sulla Cultura, riportata al suo fondamento selvaggio ed eccentrico al linguaggio.10 Credo piuttosto che inizio e fine si corrispondano, e non si possa leggere la prima lassa senza far riferimento all’ultima, in cui il narratore, con un improvviso salto narrativo, abbandona la vicenda narrata e rievoca ancora una specie animale, questa volta i salmerini un tempo presenti nei torrenti di montagna. Essi avevano sul dorso dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire: «Maps and mazes. Of a thing which could not be put back. Not be made right again. In the deep glens where they lived all things were older than man and they hummed of mystery»11 (p. 287).
Quella creatura minacciosa, primitiva e modernissima, che sopravvive attraverso le diverse fasi della storia della terra, prima e dopo l’avvento dell’uomo sino a oggi, esprime una stortura originaria e un mistero a essa connaturato: questa stortura è il mistero del male, che preesiste al linguaggio e alla civiltà, ma continua a vivere anche dopo di essi, sin nel vivo dell’epoca ipermoderna. Essa può provocare distruzioni immani come quella che ha incenerito il mondo in cui si aggirano i due protagonisti.
La catastrofe insomma ha un cuore antico e motivazioni attuali.
Questo libro ci racconta come resisterle, e in nome di cosa, dopo la morte di Dio e la scomparsa delle ideologie complessive. La pulsione vitale
– il fuoco della vita – è tutto ciò che ci resta; non è molto ma lo spirito di sacrificio che essa esige, e la trasmissione di questo valore da una genera-zione all’altra, può essere forse il fondamento di una nuova civiltà.
E questa è un’altra ragione per cui La strada merita di restare nel canone occidentale: a futura memoria di una possibilità.
9 «I minuti della terra scanditi nel silenzio, le sue ore, i giorni, gli anni senza sosta» (p. 3).
10 Recalcati, Cosa resta del padre? , cit., p. 156.
11 «Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero»
(pp. 217-218).
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Alessandra Ginzburg
Il quinto angelo sonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell’Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l’atmosfera.
( Apocalisse, 9.1)
Lo sfondo di questo romanzo doloroso e sapienziale è quello del viaggio che un padre compie con il figlio in un universo che si immagina devastato da qualche catastrofico evento – forse una spaventosa esplosione nucleare Alessandra
– che ha posto fine a quasi tutte le forme di vita conosciute. Pochi super-Ginzburg