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8. Cibo e utensili

Come tutti coloro che cercano di sopravvivere, il padre è ossessionato dalla ricerca di beni elementari: l’acqua potabile, le scarpe, e soprattutto il cibo. In un mondo in cui la Natura stessa ha cessato di esistere, solo po-chissimi esemplari di cibo non inscatolato possono sopravvivere al disastro: un prosciutto rinsecchito, delle spugnole, qualche mela (segno di un Eden perduto?). Sono unicamente i cibi in scatola ritrovati a volte persino in abbondanza nelle case abbandonate che li salvano dalla morte per fame: fagioli, carne, pere sciroppate, persino una coca-cola: «la ricchezza di un mondo scomparso» (p. 107). Qualche rara volta un bagno caldo diventa un minuscolo paradiso. Come per il cibo, anche per gli utensili il criterio fondamentale è l’utilità. È così per il carrello del supermercato, le coperte, il taglierino, gli accendini, una bottiglia che si trasforma in lampada. Sulla barca incagliata, certo una citazione del romanzo di Defoe, fra tante cose necessarie, l’uomo si emoziona per un istante sulla bellezza gratuita del sestante, «la prima cosa che lo entusiasmava dopo tanto tempo» (p. 174), ma porta con sé solo oggetti di uso immediato, come la pistola lanciarazzi, che verrà utilizzata per appagare una ricerca di contatti che gli richiede il bambino, sempre più scoraggiato di dover vivere in un mondo senza altre persone vive.

9. Ricordi

All’inizio del viaggio il padre vuole proteggere il bambino dai traumi e lo invita a non guardare le atrocità che incontrano: «Ricordati che le cose che ti entrano in testa poi ci restano per sempre» (p. 10); una frase che il bambino riprende identica in forma interrogativa quando incontrano, tragica replica di un’innaturale eruzione, i «cadaveri imprigionati nel-186

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l’asfalto, le braccia strette intorno al corpo, la bocca urlante» (p. 145), a conferma dell’impossibilità per lui di trovare riparo dall’orrore. Il padre ha dei ricordi che affiorano a tratti: una giornata di pesca trascorsa con uno zio quando era bambino, una spedizione per bruciare dei serpenti, la moglie e i suoi vestiti leggeri, un cielo coperto di stelle, ma sente pro-gressivamente che il mondo si riduce «ad un nocciolo nudo di entità analizzabili» (p. 68), in cui i nomi delle cose «seguono lentamente le cose stesse nell’oblio», e si chiede: «Quanto di tutto questo era già scomparso?

Il sacro idioma privato dei suoi referenti e quindi della sua realtà» (p.

68). Eppure il ricordo del padre dopo la morte sopravvive nel bambino che preferisce parlare con lui piuttosto che con Dio. Come commenta saggiamente la donna che lo accoglie maternamente, «il respiro di Dio Cormac

è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno»

McCarthy,

La strada (2006)

(p. 217). Non c’è trionfo finale dell’Agnello in questa nuova Apocalisse, ma resta il ricordo dell’essere stati reciprocamente «l’uno il mondo intero dell’altro» (p. 5).

10. I salmerini

E tuttavia nel paragrafo che chiude il libro i salmerini dei torrenti di montagna sul cui dorso sono disegnate «le mappe del mondo in divenire.

Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare» (pp. 217-218) sembrano insinuare il dubbio che non c’è salvezza possibile per l’umanità neppure grazie al «migliore fra i buoni» (p. 212). Un’Apocalisse senza riscatto, se anche l’unico Agnello possibile, quello non trascendente incarnato dal bambino, è destinato a fallire.

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Allegoria_63_Layout 1 09/03/12 10:27:07 Pagina 188 (Nero pellicola) Canone contemporaneo

Pietro Cataldi

1. Il respiro del bambino

Un padre e un figlio si aggirano in un mondo sconvolto da una catastrofe imprecisata che ha devastato la natura, distruggendo quasi del tutto ogni forma di vita, e ha cancellato fra i pochi umani sopravvissuti ogni traccia di civiltà. La madre ha rinunciato a seguirli in questo tentativo che a lei è parso privo di senso, e si è uccisa.

Fin dalle prime righe del racconto il lettore è posto a contatto con il tenue pulsare animale del «bambino»; è costretto ad accoglierne la vul-Pietro Cataldi

nerabilità, come di fronte al monitor di un reparto di terapia intensiva: Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte

[il padre] allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. […] La sua mano si alzava e si abbassava a ogni prezioso respiro.

(p. 3)

Per gran parte del racconto la mano resta appoggiata alle costole del bambino, a verificare di secondo in secondo il perdurare di quel miraco-loso respiro, di quell’alzarsi e abbassarsi in cui consiste la vita; e in cui il valore della vita pare essersi concentrato, con un effetto straziante: se l’unica cosa che ancora dà senso alla realtà sta in quel respiro, tutto può essere perduto ove esso venga meno. E ogni cosa intorno non fa che mi-nacciare quel piccolo corpo. L’insistenza continua sulla sua fragilità è un aspetto decisivo del racconto e del suo significato. La narrazione non si stanca mai di tenerci a contatto con la vulnerabilità del bambino: perché da questo dato dipende il senso della scommessa tentata dal padre che ora ne protegge la sopravvivenza, e dipende il senso della vita in generale, una volta che tutta la complessa architettura delle relazioni e degli affetti si sia rattrappita a questo solo rapporto.

Il momento in cui la vulnerabilità del bambino raggiunge il suo culmine precede di poco lo scioglimento finale: il piccolo è colpito da una febbre altissima che ne minaccia la vita giusto prima che, avvenuta la gua-rigione, si verifichi la morte del padre. E questi assiste la malattia del figlio,

«terrorizzato» (p. 188) dalla possibilità della sua morte, «in preda al pa-nico» (p. 189) all’idea che con quella morte giunga «l’ultimo giorno sulla terra»: «Abbracciava il bambino e si chinava a sentire il risucchio affannoso del suo respiro. Una mano sulle costole spigolose e sottili» (p. 190). L’idea della morte del figlio comporta la scelta di seguirlo: «Manterrò la promessa, disse piano. Non ti ci mando da solo, nelle tenebre. Per niente al mondo» (p. 189).

Il respiro di questo bambino denutrito viene investito di una insistente valenza religiosa e diventa il respiro dell’universo in quanto dotato di senso:

«Sapeva solo che il bambino era la sua garanzia. Disse: Se lui non è il verbo 188

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di Dio allora Dio non ha mai parlato» (p. 4); una considerazione che giunge subito dopo che il paesaggio è stato descritto quale «arido, muto, senza dio» (una «terra desolata», verrà sentenziato eliotianamente poche pagine dopo: p. 13). La realtà appare al padre interamente «sostenuta da un respiro, breve e tremante» (p. 9; e cfr. anche le pp. 79, 89 e 99).

Il bambino è la ragione di vita del padre, è ciò che lo separa dalla morte (secondo la diagnosi precoce della madre suicida), non solo per il legame di amore che intercorre fra i due, e non solo per l’istinto di protezione che giganteggia nel padre. Se il padre è il portatore di un sistema di valori inteso quale memoria storica di essi, cioè quale insieme di convenzioni, il bambino risulta insistentemente la sorgente primaria di valori non fondati sulla memoria della civiltà ma su un bisogno in gran parte originario non Cormac

disposto a cedere alla durezza delle condizioni date, né alla pragmatica McCarthy,

La strada (2006)

determinazione del padre nel sopravvivere a ogni costo. E se i valori del padre barcollano nel momento in cui si è dissolto il tempo storico che li ha prodotti, i valori del figlio possono resistere al di là di quel tempo, che egli non ha conosciuto: sono valori che prescindono dalla relatività del tempo, e che esprimono una prospettiva più alta di quella concessa al padre. Questi è disposto, per proteggere il figlio, a violare leggi fondamentali del contratto sociale da lui stesso condiviso, e giunge a uccidere una e forse due volte (pp. 51 e 200). Il suo obiettivo è la sopravvivenza, e per rea-lizzarlo è disposto a compromessi con la legge sociale della solidarietà: non dà cibo agli affamati per non restarne privo, e per non privarne il figlio. Il bambino, invece, esprime una bontà che ignora le leggi dell’interesse personale: è capace di provare autentico dolore per il destino doloroso degli altri, come di fronte all’uomo fulminato che si trascina nel bitume (pp. 39-40) e a tutte le altre vittime della comune catastrofe.

Il bambino vuole aiutare gli umani occasionalmente incontrati sul cammino: ogni volta, anche di fronte al male immedicabile (agli uomini nella cantina che attendono di diventare cibo, al neonato bruciato, ecc.), il bambino si pone la questione dell’aiuto che sarebbe stato possibile concedere. Si fa carico sempre del destino degli altri. Il padre pensa a lui, tutto chiuso nella smisurata fatica di farlo sopravvivere. Ma il figlio pensa a tutti gli altri, incluso il padre (non vuole, per esempio, che il padre riservi a lui porzioni privilegiate di cibo: cfr. p. 27). Il figlio ha bisogno continuamente di rassicurarsi circa la propria appartenenza alla società dei «buoni», soprattutto ogni volta che il padre ha compiuto gesti che ai suoi occhi insidino questa certezza; oppure ne ha omessi di necessari (cfr.

per esempio le pp. 59-60).

Noi non mangeremo mai nessuno, vero?

Are sens

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