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sa» (p. 14) riapparirà nei sogni del suo compagno. La scelta della madre ha piuttosto inteso tutelare i confini della vita, mettendo al sicuro per sempre, relegandolo nel già compiuto, il bene che nella vita si era conosciuto, e che precede la nascita del figlio.10 È per questo che i sogni lieti occupati dalla sposa vengono percepiti dall’uomo come una minaccia ( ibidem): perché non sono sogni di pericolo, e dunque non sono i sogni giusti per un uomo in pericolo; sono, piuttosto, sogni che riconducono a un’immagine diversa della vita, a un’immagine cioè di ciò che è stato chiamato vita e che non può prestare il suo nome a null’altro, e tanto me-no a questa squallida peregrinazione infernale.
Pietro Cataldi
Se la scelta della madre è stata di fedeltà alla vita, della quale, ucciden-dosi, la donna ha circoscritto le pertinenze, dandole dunque un senso (relativo e mondano, cioè strettamente storico), al contrario il padre ha ammesso nello spazio della vita, dentro l’esperienza sua e soprattutto del figlio, che non può contare neppure sul conforto della memoria, una nuova condizione che con la vita pare inconciliabile. Il padre ha scelto di procedere in quel territorio fra vita e morte che l’ignota catastrofe ha creato: un territorio evidentemente assai peggiore della morte, e di gran lunga più perturbante. Il padre ha scelto di tradire tutto ciò che è stato nel tempo storico chiamato vita, e che lui stesso chiamava così con la sua sposa prima che il tragico appello delle scelte definitive venisse a dividere i loro destini. Il padre si è in questo modo assunto la responsabilità altamente tragica di sfidare un limite che non mette a nessuna dimensione nota o certa, un limite oltre il quale sembra verificarsi il paradosso di una vita che si spinga al di là della sua stessa esistenza.
Laddove la madre lascia un’eredità dolorosa ma limpida, che attribuisce alla vita qualità ben definite, circoscritte e per dir così messe in salvo dal suo gesto ultimo, l’eredità del padre è di continuo vacillante e incerta. E
se la scelta della madre ha infine deciso di proteggere il passato impo-nendogli un limite, quella del padre lo ha gettato verso una dimensione 10 Ben diversa è la riflessione sul suicidio che caratterizza l’importante dialogo teatrale pubblicato da McCarthy lo stesso anno di La strada: Sunset Limited (2007; ediz. ital. Einaudi, Torino 2009).
Qui un nero del popolo, uscito da una vita degradata e dalla delinquenza per la forza delle fede in Cristo, sottrae un bianco colto al tentativo di gettarsi contro il treno in corsa e lo sfida in un lungo colloquio sulla liceità e la opportunità di quel suo gesto. E mentre i semplici ma solidi argomenti del nero sembrerebbero in grado di restituire alla scelta di vivere il professore bianco, questi rivendica infine spietatamente il suo credo filosofico ed esistenziale critico-negativo, e di conseguenza la sua scelta di morte, che metterà a effetto di lì a poco. Non è improbabile che la riflessione sul suicidio di questo dialogo sia scaturita anche dal dissidio fondamentale di La strada, tentando una diversa configurazione dialettica: come nel romanzo ricade sul padre la responsabilità di legittimare la scelta di vivere nonostante la fine di tutto, così nel dialogo teatrale appare evidente la messa in stato di accusa dell’aspirante suicida e soprattutto, attraverso di lui, degli effetti della ragione gettata in un’investigazione sul senso e sul non senso della vita in assenza di una considerazione (che noi diremmo leopardiana) della dimensione sociale in cui la vita si svolge.
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in cui i vivi si aggirano fra le ceneri di un mondo che non c’è più, quasi realizzando l’incubo di una sopravvivenza spettrale alla propria stessa vita, e alla vita di tutti; fidando in un senso che egli riconosce nel figlio, cioè nella continuità biologica, caricata però, per il modo in cui il bambino viene sentito da lui, come abbiamo visto, di una tensione trascendente.
La conclusione del romanzo sembra dare ragione alla scelta del padre: morto il quale, il figlio trova una nuova madre capace di prendersi cura di lui: «Quando la donna lo vide lo abbracciò e lo tenne stretto. Oh, gli disse, come sono contenta di vederti» (p. 217). L’abbraccio di questa madre adottiva risarcisce l’addio senza parole della madre naturale. Tanto più che questa madre, anziché aspirare al «nulla eterno», «ogni tanto
[… ] gli parlava di Dio»; e dato che il bambino preferisce parlare con il Cormac
padre e non riesce invece a farlo con Dio, «la donna diceva che andava McCarthy,
La strada (2006)
bene così. Diceva che il respiro di Dio è sempre il respiro di Dio, anche se passa da un uomo all’altro in eterno» (p. 217).
4. La mediazione del padre e la forza del legame: interrogarsi sulla civiltà(e sulla natura)
Compiuta la scelta di contrapporsi alla compagna e di sopravvivere comunque, sul padre grava la responsabilità di darne legittimazione al cospetto del figlio. Il padre deve essere per lui tutto ciò che non esiste più, divorato da una condizione che è peggio della morte.
Alla funzione genitoriale, agli anziani, spetta di gestire il passaggio delle generazioni, di mettere in comunicazione l’eredità degli antenati e la vita impregiudicata dei figli, di favorire un transito rappresentando innanzitutto su di sé la dialettica fra ciò che non c’è più ma c’è stato un tempo e quanto è presente e vivo; ai genitori spetta di parlare dei morti e del mondo morto. Ma per il padre di La strada tale funzione non può contare su nessuna mediazione: il mondo nel quale si svolge il suo rapporto con il figlio non è la sintesi fra passato e presente, non è il risultato, dialettico appunto, del divenire storico; intorno c’è solo la distruzione di tutto ciò che un tempo è stato vivo: non la sua assenza ma la sua presenza luttuosa. Non c’è un altro mondo che abbia sostituito, mediandone la fine, il mondo precedente: c’è il mondo precedente fossilizzato. Si impone dunque una nuova esperienza del passato, renitente a ogni elaborazione, cioè infine non mediabile. Perché il passato è lì, con gli alberi scheletriti i benzinai le case il mare e le barche, ma è tutto finito: presente e morto al tempo stesso. Nel momento in cui il passato e il presente coincidono, di fatto esiste solo il presente, e a essere davvero impensabile è a questo punto il futuro: il futuro come trasformazione dello stato di cose presente.
Leggere in questa condizione anche un’allegoria della società postmoderna non sarà forse azzardato, vedendo dunque nel rapporto fra padre 201
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e figlio il disagio di una civiltà che ha trasformato l’eredità dei padri in una banca dati e ha bruciato il futuro e le prospettive dei figli.
Il padre non può accontentarsi di raccontare al figlio di un modo diverso di essere del mondo: deve farsi carico di un racconto ben più angoscioso, lavorando sul limite della follia.11 Il padre deve raccontare al figlio come era il mondo prima che morisse, come era da vivo quel mondo ora morto, in mezzo al quale loro due si aggirano come inessenziali sopravvissuti.
Il padre deve d’altra parte affiancare alla memoria di quando il mondo era vivo la giustificazione della loro sopravvivenza in mezzo a tutta quella Pietro Cataldi
morte (p. 162). Se già mediare il racconto del passato costituisce un carico straziante, più doloroso ancora, e difficile, è mediare la realtà dell’esperienza, spiegare al figlio non perché il mondo sia così come egli lo vede (una sfida che non tenterà mai, a tal punto sarebbe persa in par-tenza) ma perché loro due abbiano una ragione per aggirarsi in esso, senza alcuna prospettiva davvero diversa dalla semplice replicazione del presente.12
Le spiegazioni offerte per mediare l’orrore intollerabile sono nume-rose, e giungono a giustificare la necessità del loro stesso comportamento talvolta crudele con altri umani incontrati; ma il nucleo sul quale si regge il patto semantico fra i due consiste nella loro relazione e non può uscirne.
«Sono qui», è l’esordio del padre al primo risveglio narrato del bambino (p. 5); «Lo so» è la sua risposta. Il senso di ciò che loro stanno facendo non può essere immaginato al di fuori di questo legame, di questo esserci dell’uno per l’altro: non è la debole illusione di una meta (l’andare verso sud), e non può essere il puro e semplice superamento delle difficoltà quotidiane e dei pericoli anche atroci. Il senso sta nel perdurare di un legame in mezzo a un mondo che distruggendo ogni cosa ha distrutto anche e prima di tutto proprio i legami fra gli umani, degradati al cannibalismo e all’uso puramente egoistico dell’altro.
11 Il padre è portatore di due punti di vista narrativi: uno gestito a uso del figlio, e uno privo di mediazioni, solo per sé. Da lui si esprime dunque un discorso che interpreta i fatti per il figlio, e un controdiscorso che li interpreta solo per se stesso. E questo controdiscorso attraversa disperatamente tutto il racconto, relativizzando contrappuntisticamente le parole de-stinate al bambino. Un solo esempio: «Ogni giorno è una menzogna, disse [a se stesso]. Ma tu stai morendo. Questa non è una menzogna» (p. 181). Accanto alla descrizione seccamente referenziale del narratore esterno trovano dunque posto le due reinterpretazioni fornite dal punto di vista del padre: quella per sé e quella per il figlio.
12 Il controdiscorso che il padre rivolge incessantemente a se stesso è spesso mediato dai sogni, e uno in particolare gli rivela la difficoltà di trasmettere al bambino la memoria del mondo perduto: «Si voltò a guardare il bambino. Forse per la prima volta, capì che ai suoi occhi lui era un alieno. Un essere venuto da un pianeta che non esisteva più. Le storie che raccontava erano sospette. Non poteva ricostruire il mondo perduto per compiacerlo senza trasmettergli anche il dolore della perdita […]. Non poteva riaccendere nel cuore del bambino ciò che era ormai cenere nel suo».
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Il legame fra padre e figlio deve bastare a mediare l’orrore di continuo patito: per il figlio il padre, con la sua determinazione a durare, è la prova che l’orrore non ha ancora prevalso; e per il padre questa prova sta nella smisurata difficoltà di questo compito che egli si è assunto: non solo proteggere il figlio dalla morte, ma soprattutto proteggerlo dal non senso e dalla disperazione.
La parola d’ordine che i due condividono, e sulla quale si regge il loro patto, è l’idea di portare il fuoco: una certezza priva di contorni definiti che vale a superare i momenti di sconforto e in qualche caso a legittimare il proprio comportamento verso gli altri. L’idea di portare il fuoco è un modo per protendere verso il futuro la propria specificità, un modo di darle un obiettivo; cioè un modo di acquisire un’identità specifica, allu-Cormac
dendo a un codice di valori, minimale quanto si vuole, e tuttavia risolutivo McCarthy,
La strada (2006)
in quel contesto. Ora, il controllo del fuoco è una tappa decisiva nella ge-nesi della civiltà, e rivendicare questo carattere corrisponde alla decisione di non limitarsi a sopravvivere in mezzo alla morte, ma di portarvi un senso, di ricostruire in mezzo al nulla una prospettiva di civiltà. E come ha ben visto Recalcati, il fuoco del quale i due sono portatori è il loro stesso legame sociale, cioè la base di qualsiasi civiltà e di qualsiasi senso umano13 (oltre che, come si è visto, una metafora religiosa del legame con Dio, o almeno della presenza di una tensione trascendente all’interno degli umani: una metafora pentacostale?).
Un significato particolare rivestono da questo punto di vista le cure parentali che il padre compie nei confronti del figlio, accudendolo e pro-teggendolo; replicando gesti di solito inseriti in un contesto di mediazione civile, e che ricollocati invece nel mondo incenerito assumono una straziante connotazione straniata: lavare il bambino, vestirlo, tagliargli i capelli, pettinarlo, sorreggerlo durante la malattia e aiutarlo a vomitare, portarlo in braccio, perfino, in alcuni momenti di pericolo. Dopo aver sparato alla testa di un uomo che aveva abbrancato il bambino, il padre lava il figlio dai resti del morto schizzati su di lui, lo nutre e lo mette a dormire dopo avergli asciugato i capelli davanti al fuoco.14
Questo è mio figlio, disse. Gli lavo via dai capelli le cervella di un uomo.