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Cormac McCarthy,
La strada (2006)
Romano Luperini
Alessandra Ginzburg
Pietro Cataldi
Romano Luperini
1.
La strada non è diviso in parti o capitoli. Fluisce come un lungo poemetto epico-lirico, scandito in brevi lasse (raramente superiori alla lunghezza di una pagina) segnate da spazi bianchi tipografici. La funzione poetica della lingua è fortemente sottolineata dal ritmo da ballata lirica, dalle al-litterazioni, dal gioco insistito delle paronomasie.1 Come in altre opere di McCarty (e particolarmente in Meridiano di sangue), ma qui forse più che altrove, i colori del paesaggio svolgono un ruolo decisivo nel creare l’atmosfera lirica. L’oscurità, il lividore, il grigio, una condizione di eterno crepuscolo marcano ogni lassa. L’unica alternativa è fra il buio della notte e il pallore cinereo del giorno. Ma a prevalere è il grigio; il grigio è il colore del racconto. L’aggettivo «gray» ritorna ossessivamente (ma nella pur ottima traduzione italiana, dovuta a Martina Testa, ‘grigio’ è a volte sostituito da ‘livido’ o da altri aggettivi semanticamente affini), appena alternato a sfumature più smorte e pallide («dull», «wan», «opaque»,
«faint», «paling»), o più plumbee e metalliche («the gunmetal light», l’aria o le acque «leaden»). D’altronde la ripetizione è una cifra stilistica di queste pagine. I due periodi iniziali danno il ritmo, il tono e il colore C. McCarthy, The Road, Vintage International, New York 2006; trad. it. di M. Testa, La strada, Einaudi, Torino 2007.
1 Cfr. K. Lincoln, Cormac McCarthy. American Canticles, Palgrave MacMillan, New York 2009: « The Road begins in ballad lyric prose […]: “When he woke in the woods in the dark and the cold of the night / he’d reach out to touch the child sleep ing be side him”. The anapests, reverse spondaic feet, and alliterative rhytms give fine classic cadence to the tale’s opening, a father-son love story at the end of the world, all balanced in blank verse couplets turning back on themselves to Shakespeare, Milton, amd Yeats. McCarthy classically cadences a lyiric narrative to tell a terrible journey: “Then they set out along the blacktop in the gun metal light, shuffling / through the ash, each the oth er’s world en tire”» (p. 164). Più avanti (p. 173) si parla di «spondaic hesameters and trochaic pentameters».
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che con estrema coerenza ritornano in ogni pagina, sino alla fine del libro: «dark», «cold», «night», «Nights», «dark», «darkness», «gray»: When he woke in the woods in the dark and the cold of the night he’d reach out to touch the child sleeping beside him. Nights dark beyond darkness and the days more gray each one than what had gone before.2
(p. 3)
Compaiono subito i due protagonisti, che non hanno un nome proprio, ma sono solo il padre e il figlio, «he» e «the child», senza determi-nazioni ulteriori: due figure mitiche. Ogni traccia di civiltà e di socialità è scomparsa, a partire dai nomi. Intorno a loro c’è solo un mondo defunto, annichilito da un’enorme combustione: non stati, non confini, non leggi; Cormac
nessun ordine, nessuna legalità, nessuna religione. Città deserte, abban-McCarthy,
donate, saccheggiate. Un paesaggio apocalittico, lande e terre desolate, La strada (2006)
secondo un modello, genialmente descritto da Frye,3 che dalla Bibbia, attraverso l’inferno dantesco, giunge a Shakespeare, Hardy, Eliot. I due pellegrini compiono un viaggio nel deserto verso una improbabile terra promessa. Rocce e cenere dovunque. Il simbolismo apocalittico esige il trionfo dell’inorganico. Nessuna vegetazione, nessun animale. Il cielo e il mare sono vuoti, la terra è coperta di fuliggine e di boschi scheletriti e anneriti. Le acque stesse dei fiumi sono lente e plumbee. Di tanto in tanto appena si intravede un sole sempre più pallido, subito sopraffatto dallo squallore della pioggia e della neve. Esistono da qualche parte residui di comunità che espellono chi trasgredisce alle loro regole e per renderlo riconoscibile gli tagliano le dita della mano destra; da qualche parte –
così sperano i due protagonisti – devono resistere ancora dei «buoni»; ma in realtà questo mondo travolto da un’immane catastrofe è quasi del tutto disabitato e percorso solo da gruppi di bruti affamati che uccidono, stuprano, praticano il cannibalismo.
I due protagonisti non hanno storia o evoluzione. D’altronde la narrazione non si articola in un plot. La strada non è un novel, ma si colloca a metà strada fra il poemetto in prosa epico-lirico e il romance, di cui riprende il carattere statico dei protagonisti e il tema della ricerca e dell’avventura. Il genere apocalittico, così diffuso nel romanzo e nella cinematografia dell’ipermodernità, viene ripreso, ma purificato da ogni effetto
“romanzesco”. I fatti stessi, gli episodi di azione, non sono frequenti e si concentrano soprattutto nella seconda parte del racconto, mentre nella prima prevalgono piuttosto il ritmo del viaggio, le descrizioni del paesag-2 «Quando si svegliava in mezzo ai boschi nel buio e nel freddo della notte allungava la mano per toccare il bambino che gli dormiva accanto. Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato» (p. 3).
3 N. Frye, Anatomy of Criticism. Four Essays, Princeton University Press, Princeton 1957; trad. it.
Anatomia della critica. Quattro saggi, Einaudi, Torino 1969, pp. 193-198.
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gio, il mondo onirico e memoriale del padre. Secondo Bachtin, il crono-topo della strada sarebbe contrassegnato dall’incontro, il quale a sua volta garantirebbe la ramificazione della trama o dell’intreccio.4 Ma qui non c’è intreccio. Gli incontri non hanno un seguito, uno sviluppo. Non nasce mai una dialettica, un interscambio. L’altro non è un interlocutore: è un pericolo, un ostacolo da superare, un nemico da combattere. Il bambino si ostina, quando le circostanze lo permettono, a voler vedere nell’altro una possibilità o comunque una persona che può essere aiutata (vorrebbe lasciare qualcosa da mangiare al vecchio che arranca nelle stessa direzione e persino al ladro che gli ha sottratto il carrello del cibo e delle coperte); Romano
Luperini
ma il padre ha il dovere di richiamarlo al principio di realtà per cui mors tua vita mea e homo homini lupus.
Neppure il dialogo serve a portare avanti l’azione. I dialoghi fra i due protagonisti si ripetono puntualmente con le stesse modalità: sono scarni, essenziali, fatti di brevi domande e di brevi risposte, contengono sempre le stesse rassicurazioni, richieste, preghiere. Obbediscono a una cadenza, non a una dinamica romanzesca.
Gli incontri e i dialoghi fra padre e figlio non rientrano nella logica dello sviluppo, ma in quella della ripetizione, che d’altronde segna anche il lessico, il paesaggio e le atmosfere psicologiche. Gli incontri con le altre creature umane non sono diversi da quelli con le cose (case e ville saccheggiate, un bunker sotterraneo, un treno, una barca) o con gli elementi naturali (i fiumi, la montagna, il mare): sono tappe in cui è impossibile riconoscere una progressione o l’avvicinamento alla meta. I due puntano verso il mare, ma quando lo raggiungono nulla cambia né nei colori del paesaggio (il mare, con disappunto del bambino, non è blu, ma grigio come la campagna e i boschi coperti di cenere) né nella qualità della loro vita. Quello che conta è sempre e comunque trovare da mangiare e da riscaldarsi ed evitare che qualcuno ti tolga il cibo, le coperte o la vita. In tutto il racconto gli incontri con altri esseri umani si succedono a intervalli regolari per sette volte (un numero forse non casuale, in quanto corri-spondente a una simbologia religiosa): si tratta di un vecchio ustionato; di un uomo che viaggia con altri su un camioncino, minaccia di morte il figlio e viene ucciso dal padre con un colpo di pistola in fronte; degli uomini di una villa che praticano il cannibalismo e tengono prigioniere creature umane in uno scantinato per cibarsene; del vecchio che dice di chiamarsi Ely (è l’unico nome della storia) e a cui il bambino vuole lasciare qualcosa da mangiare; del ladro che sottrae loro il carrello dove i due pellegrini hanno ammassato cibo e coperte portati via da una barca abbandonata nei pressi della riva (citazione da un ipotesto d’altronde co-4 M. Bachtin, Voprosy literatury i estetiki, Xudožestvennaja literatura, Moskva 1975; trad. it. Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1979, p. 391.
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stante, Robinson Crusoe); dell’uomo armato di un arco che da una finestra ferisce con una freccia il padre; e infine del personaggio col fucile che, dopo la morte del padre, viene in aiuto al bambino e lo adotta portandolo nella sua famiglia. Solo quest’ultimo incontro, rivelando che i «buoni»
esistono davvero, introduce un elemento nuovo; ma ormai siamo alla fine della narrazione. Una qualche terra promessa forse è stata raggiunta. Im-provvisamente, senza preavviso, la morte del padre coincide con la salvezza del figlio e con la conclusione del racconto: l’etica del sacrificio ha raggiunto il suo scopo. La parabola si chiude, l’allegoria svela, forse un po’
bruscamente e volontaristicamente, il proprio messaggio.
Dunque, per concludere su questo punto, una narrazione assai poco romanzesca che tende all’assolutezza di una preghiera o di una lirica. Ci Cormac
avevano appena convinti che narrare storie nella ipermodernità in cui vi-McCarthy,