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È questo il mio compito. Poi lo avvolse nella coperta e lo portò vicino al fuoco. […]

Tutto questo come un rituale antico. Così sia. Evoca le forme. Quando non ti resta nient’altro imbastisci cerimoniali sul nulla e soffiaci sopra. (p. 57) 13 M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, pp. 155-169.

14 Come il padre ha accudito lungamente il figlio circondandolo delle cure parentali, così il figlio onorerà il culto dei morti, vegliando il padre per tre notti e pretendendo per il cadavere la protezione di una coperta: anche in questo caso, la cerimonialità, cioè la mediazione civile, vale a dare una forma, e dunque un senso, al non senso.

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Il minimo nucleo sociale che padre e figlio trascinano in mezzo al mondo calcinato, fra le ceneri della distruzione, in quel passato-presente e in quella morte-in-vita, il loro minimo nucleo sociale è quanto resta della civiltà. E La strada è anche una grandiosa e radicale interrogazione sulla civiltà: fatta alla luce di quanto sappiamo di essa dopo gli orrori con-centrazionari del Novecento e dopo le meditazioni scaturite da quelle esperienze, e collocata al cospetto di una civiltà – quella globalizzata del tardo capitalismo – che ha dissolto gran parte dei legami sociali sui quali per millenni si è costruito il senso della socialità. Se la contestualizzazione del romanzo è debitrice della letteratura (e della cinematografia) del ge-Pietro Cataldi

nere catastrofico, e più in profondità è animata dalla grande tradizione apocalittica dei testi sacri, non va tralasciata la sorgente filosofica spicca-tamente novecentesca per questo aspetto – d’altra parte centrale – della meditazione sulla civiltà e sulla sua costitutiva fragilità.

In mezzo alla natura calcinata prende posto l’orrore di un’umanità senza legge e senza vincoli solidaristici, ridotta di numero e incalzata da una condizione ambientale inospitale, e tuttavia incapace di mettere in opera adeguati tentativi di difesa comune, o anche di dignitosa sconfitta. L’acuirsi estremo della condizione di vulnerabilità, cioè il rivelarsi della caducità umana in termini diretti e inesorabili, ha annullato le mediazioni della civiltà, rigettando gli umani nella loro crudeltà ancestrale; esasperando cioè le motivazioni in-dividualistiche e antisociali. La civiltà, anche ove non sia stata essa stessa la causa della catastrofe ecologica, ha egualmente mostrato la propria tragica vulnerabilità, collassando di fronte alla prova più grande.

La strada non si limita a mostrarci il mondo della catastrofe ecologica: ci mostra anche l’umanità senza valori civili; ci rivela a che cosa si riduca la condizione umana al di fuori dei vincoli sociali e di quel sistema di convenzioni e di leggi che siamo soliti chiamare civiltà. Ci mostra ciò che siamo in assenza delle mediazioni rappresentate dal contratto sociale. Resuscita, nel mondo sopravvissuto alla storia intesa vichianamente quale territorio dell’agire umano, i «bestioni» che hanno preceduto nozze, tribunali ed are.

Il mondo in bianco e nero della natura incenerita è anche il mondo disertato dal patto sociale: nel quale diviene visibile la verità della condizione umana, e al tempo stesso essa non è più veramente conoscibile. Ri-conquistando la piena libertà degli istinti, e in primo luogo l’istinto di sopravvivenza, l’umanità superstite ha perso ogni coscienza di sé, smar-rendo la possibilità di vedere quella verità che non tollera di esistere senza la mediazione della forma. Riconsegnato alla sua datità biologica, l’uomo è tornato cieco proprio come la spaventosa forma ancestrale che occupa, nella prima pagina del romanzo, un incubo del padre.

L’uomo è tornato cieco, cioè è rientrato nella natura, riassumendo i tratti dell’animalità non redenta dal patto civile. Dall’interno del corpo si affaccia l’arcaica origine bestiale dell’uomo, come rivela la descrizione 204

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dell’aggressore ucciso dal padre: «Occhi cerchiati di sporcizia e profon-damente incavati. Come un animale nascosto dentro un cranio che guarda fuori attraverso le orbite» (p. 49). E nel momento in cui è sul punto di dover uccidere il figlio (e se stesso), il padre stesso si interroga su questa presenza al proprio interno:

Ce la farai? Quando sarà il momento? Quando sarà il momento non ci sarà tempo. È questo il momento. Bestemmia Dio e muori. E se [la pistola]

si inceppa? Non può incepparsi. Ma se si inceppa? Saresti capace di fra-cassare quel cranio adorato con un sasso? C’è un essere simile, dentro di te? Di cui tu non sai nulla? Ci può essere? Tienilo stretto. Ecco, così. L’anima è un soffio. Abbraccialo. Bacialo. Svelto. (pp. 87-88) Cieco l’uomo che la abita e cieca di nuovo la natura, restituita alla sua Cormac

McCarthy,

nuda esistenza di forze oscure e maligne. Non più coperta dal velo della La strada (2006)

mediazione sociale, la natura guadagna una conoscibilità nuova e terribile, che al lettore italiano potrà ricordare la prospettiva del leopardiano Dialogo della Natura e di un Islandese. I due protagonisti di La strada testimoniano l’aspetto imperturbabile dell’orrore naturale, fino a intuire che proprio la fine della natura può coincidere con il suo rivelarsi: Forse, guardandone la distruzione, finalmente sarebbero riusciti a vedere come era fatto il mondo. I mari, le montagne. Il poderoso controspettacolo delle cose che cessano di esistere. La sconfinata desolazione, idropica e gelidamente terrena. Il silenzio. (p. 208)

La desolazione rivela il senso o lo interroga. La cenere illumina i gesti compiuti prima che il «controspettacolo delle cose che cessano di esistere» impo-nesse la conoscenza del mondo: la giornata trascorsa andando a far legna in barca sul lago con lo zio, pure vissuta come «la giornata ideale della sua in-fanzia», appare tutta venata già di segni di morte (pp. 10-11);15 il ricordo degli uomini che bruciano i serpenti nel vano tentativo di distruggere il male.16

15 «Betulle che si stagliavano pallide come ossa», «ceppi ritorti, grigi e slavati, residui lasciati da un uragano anni prima», «un pesce persico morto fluttuava a pancia in su nell’acqua limpida».

16 «Fermo sul bordo di un campo, d’inverno, circondato da uomini duri. Aveva l’età del bambino. O poco di più. Li aveva guardati aprire il terreno roccioso della collina a colpi di zappa e piccozza e portare alla luce un grosso bolo di serpenti, forse un centinaio. Avviluppati così per tenersi caldo a vicenda. Tubi opachi che cominciavano pigramente a muoversi nella luce fredda e aspra. Come le interiora di un’enorme bestia esposte alla luce del giorno. Gli uomini ci avevano versato sopra della benzina e li avevano bruciati vivi, non avendo alcun rimedio per il male ma solo per ciò che identificavano come l’immagine del male. I serpenti in fiamme si contorcevano in maniera raccapricciante e alcuni strisciarono divampando dentro la grotta, illuminandone i recessi più oscuri. Poiché erano muti non si sentivano grida di dolore, e gli uomini li avevano guardati bruciare e torcersi e affumicarsi ugualmente in silenzio, e in silenzio si erano dispersi nel crepuscolo invernale, ciascuno coi propri pensieri, diretti a casa per cena» (pp. 143-144). Questo ricordo infantile sembra per altro l’archetipo sul quale cresce l’incubo iniziale della caverna percorsa con il bambino, e all’interno della quale si muove una minacciosa creatura sotterranea.

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Il sogno iniziale della caverna è un’allegoria della natura abbandonata dall’anima, cioè dalla civiltà e dal bisogno (anche religioso) di senso; un’allegoria che la ripresa finale riconsegna a una traccia di senso possibile.

Nel romanzo, tuttavia, la natura non è veramente del tutto morta: ci sono i funghi e le mele trovati dal padre e di cui si ciba con il figlio (pp.

31-32 e 93), minimi indizi di un perdurare invisibile, o perfino di una ancora non percepita rinascita; forse di un disegno che ancora sfugge allo sguardo. I due non si cibano solo di residui della civiltà finita, ma anche, sia pure eccezionalmente, di frutti della terra. Come all’alba di una nuova Pietro Cataldi

possibile creazione, o di un nuovo possibile patto: quello che padre e figlio lumeggiano, e l’incontro con la nuova famiglia perfeziona.

Per questo il tratto finale sui salmerini,17 che dice la fine irreversibile del disegno del vecchio mondo, potrebbe non escludere che un nuovo mondo si stia già formando, o sia in incubazione, in qualche ruscello di montagna. È un’allegoria del passato perduto e irredimibile, certo, ma forse anche un segnale di speranza: dice alla lettera che il mondo distrutto non si può rifare, ma con la sua collocazione, a suggellare l’incontro del bambino con la nuova famiglia, è una testimonianza del «mistero» (l’ultima parola del romanzo) che circonda, e precede, l’uomo. È un memento alla responsabilità di preservare il mondo dalla distruzione: «una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare». Ma è anche la rievocazione di una presenza vitale dalla quale, benché inav-vertita, sarebbe scaturita altra vita; e dunque una promessa e un indizio valido anche per il futuro. Se così non fosse, allora la scommessa del padre e i valori del figlio sarebbero vani e vuoti, mentre è palesemente su di essi che punta la scommessa del libro; se così non fosse, allora avrebbe avuto ragione la madre con il suo suicidio.

Il tratto finale sui salmerini rovescia l’incubo dell’inizio, rivelando che il mondo vecchio è morto e non si potrà ripetere, ma che un altro mondo potrebbe, come è già accaduto una volta, rinascere: nuovamente affidato alla responsabilità dei viventi, e alla nostra.

5. Quale contenuto di verità?

McCarthy ci dice nel modo più brutale e inoppugnabile quanto fragili siano le mediazioni della civiltà, e a che cosa si riduca l’umanità al di fuori 17 «Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta bianca delle pinne che ondeggiava piano nella corrente. Li prendevi in mano e odoravano di muschio. Erano lucenti e forti e si torcevano su se stessi. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti.

Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero» (pp. 217-218).

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di esse. E così facendo liquida il pensiero dominante dell’ultimo trenten-nio, che non si è stancato di esaltare la libertà del soggetto e le prerogative dell’interesse individuale, criticando ogni idea di limite solidaristico a vantaggio del singolo, esaltando la felice liberazione degli istinti e facendo dell’aspirazione al godimento individuale l’unico parametro del valore.

McCarthy mostra che cosa sia, quando realmente perseguita, la fine della storia sulla quale l’ideologia postmoderna ha appuntato il suo nietzschea-nesimo regressivo; mostra con la forza del codice letterario il volto ag-ghiacciante di un mondo nel quale dominino la legge del più forte, l’interesse individuale, la competizione sociale, il fine del vantaggio del singolo: cioè l’ideologia trionfante dopo la fine delle ideologie. Lo mostra per mezzo di una metafora che non dovrebbe permetterci sonni tranquilli Cormac

quale che sia la chiave per mezzo della quale scegliamo di ricondurre il McCarthy,

La strada (2006)

discorso letterario a un plausibile contenuto di verità.

Come non vedere, poniamo, che la struttura così complessa e raffinata della civiltà, fondata com’è su un sistema di mediazioni e di convenzioni, potrebbe sbriciolarsi intorno a noi e abbandonarci nello stesso deserto disperato nel quale si muovono questo padre e il suo bambino? Non è già accaduta forse una cosa analoga agli internati nei lager e nei gulag?

Come non vedere che quest’uomo con il carrello e un bambino assomiglia oggi – intorno a noi, nel nostro stesso mondo pure ancora abitato per noi dai colori protettivi dei conforti civili – a quel miliardo di umani a rischio di morire di fame, di malattie devastanti, di guerre tribali?

La metafora di questo romanzo evoca, oltre alle possibili catastrofi ecologiche o nucleari, la condizione già in questo momento apocalittica nella quale sopravvive, quando sopravvive, una porzione assai consistente di umanità; nonché lo sprofondamento barbarico nel quale è travolta anche l’umanità privilegiata delle società opulente del primo mondo. Nel padre con il carrello e nel suo fragile figlio è possibile riconoscere un’umanità già oggi affamata; ed è possibile specchiare il non senso della vita, per moltissimi, anche garantiti per ora dalle mediazioni civili, ridotta al consumo e all’indifferenza delle relazioni, una vita intesa quale uso degli altri e della natura. Per mezzo della prospettiva del genere catastrofico, questo grande romanzo realista parla di noi. Di come sia fragile la civiltà; di ciò che siamo senza le sue mediazioni. Ma parla anche delle possibilità concesse a un padre e al legame sociale minimo che insiste a dare senso alla sua vita e a quella del figlio.

Questo romanzo parla del respiro di un bambino e del suo valore. In quel respiro possiamo riconoscere tutto ciò che amiamo, e per cui cre-diamo valga la pena di vivere; e possiamo scorgervi la fragilità che lo accompagna. Ci sono momenti storici nei quali è concesso di voltare le spalle a quella fragilità, di dimenticare quanto relativa e provvisoria sia la sicurezza che il codice della socialità ci concede; in cui possiamo solle-207

Allegoria_63_Layout 1 09/03/12 10:27:11 Pagina 208 (Nero pellicola) Canone contemporaneo

vare la mano dal torace del bambino. E ce ne sono altri in cui il privilegio della distrazione non è concesso. Molti indizi ci lasciano credere di essere in uno di questi momenti, e che le cose che amiamo e che danno senso alla nostra vita non siano meno fragili, relative e fuggevoli del respiro di questo bambino. Se vogliamo continuare a portare il fuoco, a camminare verso sud, dobbiamo proteggerlo come fa suo padre; e raccontargli di passato e di futuro, in modo credibile, prima del nostro addio.

Pietro Cataldi

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