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Susanna Tamaro

Va' dove ti porta il cuore

( 1994)

A Pietro

Oh Shiva, sai che cos'è la tua realtà?

Che cos'è quest'universo colmo di stupore?

Che cosa forma il seme?

Chi fa da mozzo alla ruota dell'universo?

Che cos'è questa vita al di là della forma che pervade le forme?

Come possiamo entrarvi pienamente, al di sopra dello spazio e del tempo, dei nomi e dei connotati?

Chiarisci i miei dubbi!

Da un testo sacro dello shivaismo kashmiro

Opicina, 16 novembre 1992

Sei partita da due mesi e da due mesi, a parte una cartolina nella quale mi comunicavi di essere ancora viva, non ho tue notizie. Questa mattina, in giardino, mi sono fermata a lungo davanti alla tua rosa. Nonostante sia autunno inoltrato, spicca con il suo color porpora, solitaria e arrogante, sul resto della vegetazione ormai spenta. Ti ricordi quando l'abbiamo piantata?

Avevi dieci anni e da poco avevi letto il Piccolo Principe. Te l'avevo regalato io come premio per la tua promozione. Eri rimasta incantata dalla storia. Tra tutti i personaggi, i tuoi preferiti erano la rosa e la volpe; non ti piacevano invece i baobab, il serpente, l'aviatore, né tutti gli uomini vuoti e presuntuosi che vagavano seduti sui loro minuscoli pianeti. Così una mattina, mentre facevamo colazione, hai detto: «Voglio una rosa». Davanti alla mia obiezione che ne avevamo già tante hai risposto: «Ne voglio una che sia mia soltanto, voglio curarla, farla diventare grande». Naturalmente, oltre alla rosa, volevi anche una volpe. Con la furbizia dei bambini avevi messo il desiderio semplice davanti a quello quasi impossibile. Come potevo negarti la volpe dopo che ti avevo concesso la rosa? Su questo

punto abbiamo discusso a lungo, alla fine ci siamo messe d'accordo per un cane.

La notte prima di andare a prenderlo non hai chiuso occhio. Ogni mezz'ora bussavi alla mia porta e dicevi: «Non riesco a dormire». La mattina alle sette avevi già fatto colazione, ti eri vestita e lavata; con il cappotto addosso mi aspettavi seduta in poltrona. Alle otto e mezza eravamo davanti all'ingresso del canile, era ancora chiuso. Tu guardando tra le grate dicevi: «Come saprò qual è proprio il mio?» C'era una grande ansia nella tua voce. Io ti rassicuravo, non preoccuparti, dicevo, ricorda come il Piccolo Principe ha addomesticato la volpe.

Siamo tornate al canile per tre giorni di seguito. C'erano più di duecento cani là dentro e tu volevi vederli tutti. Ti fermavi davanti a ogni gabbia, stavi lì immobile e assorta in un'apparente indifferenza. I cani intanto si buttavano tutti contro la rete, abbaiavano, facevano salti, con le zampe cercavano di divellere le maglie. Assieme a noi c'era l'addetta del canile.

Credendoti una ragazzina come tutte le altre, per invogliarti ti mostrava gli esemplari più belli: «Guarda quel cocker», ti diceva. Oppure: «Che te ne pare di quel lassie?» Per tutta risposta emettevi una specie di grugnito e procedevi senza ascoltarla.

Buck l'abbiamo incontrato al terzo giorno di quella via crucis. Stava in uno dei box sul retro, quelli dove venivano alloggiati i cani convalescenti.

Quando siamo arrivate davanti alla grata, invece di correrci incontro assieme a tutti gli altri, è rimasto seduto al suo posto senza neanche alzare la testa. «Quello», hai esclamato tu indicandolo con un dito. «Voglio quel cane lì.» Ti ricordi la faccia esterrefatta della donna? Non riusciva a capire come tu volessi entrare in possesso di quel botolo orrendo. Già, perché Buck era piccolo di taglia ma nella sua piccolezza racchiudeva quasi tutte le razze del mondo. La testa da lupo, le orecchie morbide e basse da cane da caccia, le zampe slanciate quanto quelle di un bassotto, la coda spumeggiante di un volpino e il manto nero e focato di un dobermann.

Quando siamo andate negli uffici per firmare le carte, l'impiegata ci ha raccontato la sua storia. Era stato lanciato fuori da un'auto in corsa all'inizio dell'estate. Nel volo si era ferito gravemente e per questo motivo una delle zampe posteriori pendeva come morta.

Buck adesso è qui al mio fianco. Mentre scrivo ogni tanto sospira e avvicina la punta del naso alla mia gamba. Il muso e le orecchie sono diventati ormai quasi bianchi e sugli occhi, da qualche tempo, gli si è posato quel velo che sempre si posa sugli occhi dei cani vecchi. Mi

commuovo a guardarlo. È come se qui accanto ci fosse una parte di te, la parte che più amo, quella che, tanti anni fa, tra i duecento ospiti del ricovero, ha saputo scegliere il più infelice e brutto.

In questi mesi, vagando nella solitudine della casa, gli anni di incomprensioni e malumori della nostra convivenza sono scomparsi. I ricordi che ci sono intorno a me sono i ricordi di te bambina, cucciolo vulnerabile e smarrito. È a lei che scrivo, non alla persona difesa e arrogante degli ultimi tempi. Me l'ha suggerito la rosa. Stamattina, quando le sono passata accanto mi ha detto: «Prendi della carta e scrivile una lettera». So che tra i nostri patti al momento della tua partenza c'era quello che non ci saremmo scritte e a malincuore lo rispetto. Queste righe non prenderanno mai il volo per raggiungerti in America. Se non ci sarò più io al tuo ritorno, ci saranno loro qui ad aspettarti. Perché dico così? Perché meno di un mese fa, per la prima volta nella mia vita, sono stata male in modo grave. Così adesso so che tra tutte le cose possibili c'è anche questa: tra sei o sette mesi potrei non essere più qui ad aprirti la porta, ad abbracciarti. Un'amica tempo fa mi diceva che nelle persone che non hanno mai sofferto di niente, la malattia, quando viene, si manifesta in modo immediato e violento. A me è successo proprio così: una mattina, mentre stavo innaffiando la rosa, qualcuno all'improvviso ha spento la luce. Se la moglie del signor Razman non mi avesse visto attraverso la recinzione che divide i nostri giardini, quasi di sicuro a quest'ora saresti orfana. Orfana? Si dice così quando muore una nonna? Non ne sono proprio sicura. Forse i nonni sono considerati così accessori da non richiedere un termine che ne specifichi la perdita. Dei nonni non si è né orfani né vedovi. Per moto naturale si lasciano lungo la strada così come per distrazione, lungo la strada, si abbandonano gli ombrelli.

Quando mi sono svegliata in ospedale non mi ricordavo assolutamente nulla. Con gli occhi ancora chiusi avevo la sensazione che mi fossero cresciuti due baffi lunghi e sottili, baffi da gatto. Appena li ho aperti mi sono resa conto che si trattava di due tubicini di plastica; uscivano dal mio naso e correvano lungo le labbra. Intorno a me c'erano soltanto delle strane macchine. Dopo qualche giorno sono stata trasferita in una stanza normale, dove c'erano già altre due persone. Mentre ero lì un pomeriggio è venuto a trovarmi il signor Razman con la moglie. «È ancora viva», mi ha detto,

«grazie al suo cane che abbaiava come un pazzo.»

Quando già avevo cominciato ad alzarmi è entrato nella stanza un giovane medico che avevo visto altre volte durante le visite. Ha preso una

sedia e si è seduto vicino al mio letto. «Dato che non ha parenti che possano provvedere e decidere per lei», ha detto, «le dovrò parlare senza intermediari e in modo sincero.» Parlava, e mentre parlava, più che ascoltarlo, lo guardavo. Aveva le labbra strette e, come sai, a me non sono mai piaciute le persone con le labbra strette. A sentire lui il mio stato di salute era così grave da non permettermi di tornare a casa. Mi ha fatto il nome di due o tre pensionati con assistenza infermieristica dove avrei potuto andare a vivere. Dall'espressione della mia faccia deve aver capito qualcosa perché subito ha aggiunto: «Non si immagini il vecchio ospizio, adesso è tutto diverso, ci sono stanze luminose e intorno grandi giardini dove poter passeggiare». «Dottore», gli ho detto io allora, «conosce gli esquimesi?» «Certo che li conosco», ha risposto alzandosi. «Ecco, vede, io voglio morire come loro», e visto che sembrava non capire, ho aggiunto,

«preferisco cadere a faccia in giù tra le zucchine del mio orto piuttosto che vivere un anno ancora inchiodata a un letto, in una stanza dalle pareti bianche.» A quel punto lui era già sulla porta. Sorrideva in modo cattivo.

«Tanti dicono così», ha detto prima di scomparire, «ma all'ultimo momento corrono tutti qua a farsi curare e tremano come foglie.»

Tre giorni dopo ho firmato un foglio ridicolo in cui dichiaravo che, se per caso fossi morta, la responsabilità sarebbe stata mia e soltanto mia.

L'ho consegnato a una giovane infermiera con la testa piccola e due enormi orecchini d'oro e poi, con le mie poche cose raccolte in un sacchetto di plastica, mi sono avviata alla fermata dei taxi.

Appena Buck mi ha visto comparire sul cancello ha cominciato a correre in tondo come un pazzo; poi, per ribadire la sua felicità, ha devastato abbaiando due o tre aiuole. Per una volta non ho avuto cuore di sgridarlo.

Quando mi è venuto vicino con il naso sporco di terra gli ho detto: «Hai visto, vecchio mio? Siamo di nuovo assieme», e gli ho grattato il retro delle orecchie.

Nei giorni seguenti ho fatto poco o niente. Dopo l'incidente la parte sinistra del corpo non risponde più come una volta ai miei comandi. La mano soprattutto è diventata lentissima. Siccome mi fa rabbia che vinca lei, faccio di tutto per usarla più dell'altra. Mi sono legata un fiocchetto rosa sul polso, così ogni volta che devo prendere una cosa mi ricordo di usare la sinistra invece della destra. Finché il corpo funziona non ci si rende conto di che grande nemico possa essere; se si cede nella volontà di contrastarlo anche per un solo istante, si è già perduti.

In ogni caso, vista la mia ridotta autonomia, ho dato una copia delle

chiavi alla moglie di Walter. È lei che passa ogni giorno a trovarmi e mi porta tutto ciò di cui ho bisogno.

Girando tra la casa e il giardino il pensiero di te è diventato insistente, una vera ossessione. Più volte sono arrivata fino al telefono e l'ho sollevato con l'intenzione di mandarti un telegramma. Ogni volta però, appena rispondeva il centralino, decidevo di non farlo. La sera, seduta in poltrona

– davanti a me il vuoto e intorno il silenzio – mi interrogavo su cosa fosse meglio. Su cosa fosse meglio per te, naturalmente, non per me. Per me certo sarebbe molto più bello andarmene con te accanto. Sono sicura che se ti avessi avvisato della mia malattia, tu avresti interrotto il tuo soggiorno in America e ti saresti precipitata qui. E poi? Poi magari io sarei vissuta ancora per tre, per quattro anni, magari in sedia a rotelle, magari istupidita e tu, per dovere, mi avresti assistito. Lo avresti fatto con dedizione ma, col tempo, quella dedizione si sarebbe trasformata in rabbia, in astio. Astio perché gli anni sarebbero passati e avresti sprecato la tua giovinezza; perché il mio amore, con l'effetto di un boomerang, avrebbe costretto la tua vita in un vicolo cieco. Così diceva dentro di me la voce che non voleva telefonarti. Non appena decidevo che aveva ragione lei, subito compariva nella mia mente una voce contraria. Cosa ti sarebbe successo, mi chiedevo, se al momento di aprire la porta, invece di trovare me e Buck festanti, avessi trovato la casa vuota, disabitata da tempo? Esiste qualcosa di più terribile di un ritorno che non riesce a compiersi? Se ti avesse raggiunto laggiù un telegramma con la notizia della mia scomparsa, non avresti forse pensato a una specie di tradimento? A un dispetto? Visto che negli ultimi mesi eri stata molto sgarbata con me, io ti punivo andandomene senza avvisarti. Questo non sarebbe stato un boomerang ma una voragine, credo che sia quasi impossibile sopravvivere a una cosa del genere. Ciò che dovevi dire alla persona cara resta per sempre dentro di te; lei sta là, sotto terra, e non puoi più guardarla negli occhi, abbracciarla, dirle quello che non le avevi ancora detto.

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