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Oh, cattivaccio, non vi vergognate d’andar vagando così lungi di casa? Che andate facendo? Certo, delle bricco-nate. Voi siete una gatta morta, Steerforth, ma anch’io, sapete! Ah, ah, ah! Certo avreste scommesso cento contro cinque, che non mi avreste mai e poi mai incontrata qui, non è vero? Ma io sono da per tutto, che Dio vi benedica, ingenua creatura! Sono qui, lì e dove non immaginate, come l’orologio del prestidigitatore nel fazzoletto della signora. A proposito di fazzoletti... e a proposito di signore... metterei una mano sul fuoco, non importa quale, che voi siete la consolazione della vostra fortunata madre.

A questo punto del discorso, la signorina Mowcher si sciolse il cappello, rigettò indietro i nastri, e si sedette, ansimante, su un predellino innanzi al fuoco, ser-vendosi della tavola, che le metteva in testa quasi una volta di mogano, come di una specie di nicchia.

– O stelle del firmamento! – ella continuò, battendosi le ginocchia con le mani, e guardando me con aria d’astuzia. – L’abitudine è una seconda natura, Steerforth.

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Dopo un ramo di scale faccio più fatica a ripigliare fiato che a tirare un secchio d’acqua. Se mi vedeste affacciata a una finestra alta, mi credereste una bella donna, no?

– Ma vi credo bella dovunque vi veggo – rispose Steerforth.

– Continuate, birbante, continuate! – esclamò la piccola creatura,

minacciandolo col fazzoletto che in quel mentre le serviva ad asciugarsi il viso. – Continuate con le vostre in-solenze! Ma vi do la mia parola d’onore che la settimana scorsa fui dalla signora Mithers... che donna! Come si conserva... e lo stesso signor Mithers venne nella stanza dove io servivo la moglie... che uomo! Come si conserva! Si conserva perfino la parrucca che porta da dieci anni. Si slanciò con tanto ardore a dirmi dei complimenti, che cominciai a pensare che sarei stata costretta a sonare il campanello. Ah, ah, ah! È un briccone simpatico, ma manca di principi.

– Che facevate per la signora Mithers? – chiese Steerforth.

– Questo lo so io, figlio benedetto – essa rispose pic-chiandosi il naso, e con una smorfia e una strizzatina d’occhi che le davano l’aspetto d’un folletto dell’altro mondo. – Non riguarda voi! Vi piacerebbe di sapere se le arresto la caduta dei capelli, o se glieli tingo, se le metto il rossetto, o le allungo le sopracciglia, non è 583

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vero? E lo saprete, diletto mio... quando ve lo dirò. Sapete come si chiamava il nonno di mio nonno?

– No – disse Steerforth.

– Si chiamava Acquinbocca, amor mio – rispose la signorina Mowcher – e discendeva da una lunga serie di Acquinbocca, dai quali ereditò tutti i domini di Nonci-sento.

Non avevo mai visto nulla che s’avvicinasse alla strizzatina d’occhi della signorina Mowcher tranne la sua disinvoltura. Ella aveva anche una maniera singolare d’ascoltare ciò che le si diceva, o d’attendere una risposta a ciò che aveva detto, o di fermarsi maliziosamente con la testa da un lato, con un occhio volto in su, come una gazza. Ero assolutamente meravigliato, e la guardavo fisso, assolutamente incurante, temo, delle norme di buona creanza.

Ella frattanto s’era tirata la sedia a fianco, ed era occu-patissima a cavar dal sacco (affondandovi il minuscolo braccio fino alla spalla ad ogni tuffo) un gran numero di boccettine, spugne, pettini, pennelli, spazzole, pezze di flanella, ferri da arricciare, e altri oggetti che ammucchiava sulla sedia. Interruppe improvvisamente quella occupazione, e disse a Steerforth, con mio gran stupore:

– Come si chiama il vostro amico?

– Il signor Copperfield – disse Steerforth – egli desidera di far la vostra conoscenza.

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– Bene, allora, la farà. Mi sembrava appunto che lo desiderasse! – rispose la signorina Mowcher, venendo dondolando verso di me, col sacco in mano, e ridendo mentre si avvicinava.

– Avete il viso d’una pesca! – disse mentre si levava in punta di piedi, e mi prendeva la guancia tra due dita. –

Mi fa venire l’acquolina in bocca. Io vado matta per le pesche. Felice di fare la vostra conoscenza, signor Copperfield.

Risposi che mi felicitavo d’aver l’onore di far la sua, e che la felicità era reciproca.

– Oh, bontà del cielo, come siete gentile! – esclamò la signorina Mowcher, con un inutile tentativo di coprirsi il viso con la minuscola mano. Ma che mondo di burle e di canzonature, che è questo!

Questo era rivolto a mo’ di confidenza a tutti e due, mentre la mano minuscola si ritirava dal viso, e seppelli-va di nuovo tutto il braccio nel sacco.

– Che volete dire, signorina Mowcher? – disse Steerforth.

– Ah! ah! ah! Che magnifica schiera di ciurmadori che formiamo, figliuolo mio dolce! – rispose quell’atomo di donna, palpando nel sacco, con la testa da un lato e l’occhio in aria. – Guardate – e ne trasse qualcosa. – Schegge d’unghia del principe russo. Lo chiamo il principe Alfabeto Sottosopra, perché il suo nome comprende tut-585

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te le lettere alla rinfusa.

– Il principe russo è vostro cliente, vero? – disse Steerforth.

– Sicuro, bellezza mia – rispose la signorina Mowcher.

– Gli taglio le unghie due volte la settimana... Alle dita delle mani e dei piedi.

– Vi paga bene, voglio sperare? – disse Steerforth.

– Paga come parla, figliuolo mio... col naso – rispose la signorina Mowcher. – Non guarda tanto per il sottile, come certi che soffrono le pene dell’inferno a pagare.

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