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– Io credo, giacché me lo domandate, che non dovreste andarvene, Trotwood – ella riprese dolcemente. – La vostra crescente reputazione, il vostro successo aumentano in voi il potere di far bene; e se io potrei fare a meno di mio fratello – disse guardandomi negli occhi – il tempo forse non potrebbe.

– Ciò che sono, io lo debbo a voi, Agnese. Giudicate voi.

– Lo dovete a me, Trotwood?

– Sì, Agnese, a voi! – dissi, chinandomi su di lei. – Ho tentato di dirvi, quando vi ho rivista, stamane, qualche cosa che m’è stato sempre in mente dall’istante della morte di Dora. Vi ricordate, quando veniste giù da me nel nostro salottino... indicando con la mano il Cielo, Agnese?

– Oh, Trotwood! – ella rispose, con gli occhi pieni di lagrime. – Ella era così affettuosa, così fiduciosa, così bambina. Potrei mai dimenticarla?

– Tale come mi appariste allora, sorella mia, vi ho sempre immaginata, veduta di poi. Sempre, e dovunque, col dito in alto, Agnese, sempre nell’atto di guidarmi verso un fine migliore, di dirigermi verso un oggetto più de-1500

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gno.

Ella scoteva il capo, e a traverso le lagrime mostrava lo stesso tranquillo e melanconico sorriso.

– Ed io ve ne son così grato, Agnese, che non trovo un’espressione adeguata per l’affetto che sento per voi.

Io voglio che sappiate, e pure non so come dirvelo, che in tutta la vita m’ispirerò a voi, mi lascerò guidar da voi, come ho fatto in mezzo alle tenebre che m’è toccato attraversare. Qualunque cosa accada, anche se vi stringerete a nuovi legami, qualunque mutamento avvenga fra noi, io sempre mi inchinerò a voi e vi vorrò bene come faccio ora, come ho sempre fatto. Sarete sempre il mio conforto e il mio sostegno, come siete sempre stata.

Fino all’ultimo giorno della mia vita, mia cara sorella, vi vedrò sempre innanzi a me, nell’atto di additarmi il Cielo.

Ella rimase con una mano nella mia, dicendomi che era orgogliosa di me e di ciò che dicevo, benché la lodassi oltre il suo merito. Poi continuò a sonar pianamente, ma senza cessar dal guardarmi.

– Sapete, Agnese, che ciò che ho saputo stasera – dissi –

sembra stranamente in armonia col sentimento col quale vi guardai la prima volta... col quale io vi sedevo accanto nei primi giorni che vi ho conosciuta.

– Sapevate che non avevo la mamma – ella rispose con un sorriso – ed eravate disposto a volermi bene.

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– Meglio ancora, Agnese. Sentivo, come se avessi conosciuto questa storia, che vi era qualcosa di tenero e nobile che vi circondava; qualcosa che avrebbe potuto esser triste in qualche altra ma non in voi.

Ella traeva dolcemente qualche nota, sempre guardandomi.

– Ridete di queste care mie fantasie, Agnese?

– No!

– O se vi dicessi che anche allora comprendevo che voi potevate essere sinceramente affettuosa, non ostante ogni scoraggiamento, e continuare ad esserlo, fino al-l’ultimo respiro?... Ridereste di questo mio pensiero?

– Oh, no! Oh, no!

Per un istante un’ombra angosciosa le passò sul viso.

Sussultai; ma poi la rividi che mi guardava col suo solito sorriso sereno, e si rimetteva a sonar dolcemente.

Tornando a casa, nella notte solitaria, perseguito dal vento come un ricordo irrequieto, pensai a lei, e temei che non fosse felice. Neppur io ero felice; ma, intanto, ero riuscito a mettere fedelmente un suggello sul passato; e pensando a lei nell’atto che levava la mano in alto, pensavo che mi additasse quel Cielo dove, nel mistero avvenire, avrei potuto amarla con un amore ignoto alla terra, e dirle la lotta che s’era combattuta in me quando l’amavo quaggiù.

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LXI.

MI SI MOSTRANO DUE INTERESSANTI

PENITENTI

Per qualche tempo – a ogni modo finché non avessi finito il libro, che sarebbe stato ancora un lavoro di parecchi mesi – stabilii la mia dimora a Dover in casa di mia zia; e colà, sedendo innanzi alla finestra dalla quale già avevo contemplato la luna sul mare, la prima volta che mi ero rifugiato sotto quel tetto, tranquillamente continuai il mio compito.

In conformità della mia intenzione di alludere ai miei lavori d’immaginazione soltanto quando eventualmente s’intreccino con la storia della mia vita, non m’indugio sulle speranze, i piaceri, le ansie e i trionfi procacciatimi dalla mia arte. Ho già detto che mi c’ero consacrato fedelmente con tutto l’ardore di cui ero capace, con tutta l’energia di cui potevo disporre. Se i libri che ho scritto han qualche valore, diranno il resto. Altrimenti avrò scritto con poco effetto, e il resto non interesserà nessuno.

Di tanto in tanto andavo a Londra: per perdermi in quella vita turbinosa, o per consultare Traddles su qualche 1503

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affare. Egli aveva saputo amministrare i miei affari, durante la mia assenza, con molto senno; e, per le sue cure, prosperavano. Siccome la mia celebrità cominciava ad attirarmi un’enorme quantità di lettere da persone a me ignote – la più parte lettere che non dicevan nulla e alle quali era difficile rispondere – convenni con Traddles di far dipingere il mio nome sulla sua porta. Lì, su quella traccia, il devoto portalettere riversava staia di corrispondenza per me; e in quel monte di carte, di tanto in tanto, andavo a immergermi a capofitto, come un ministro dell’Interno, ma senza lo stipendio, nei dispacci di Stato.

Fra quelle lettere, talvolta s’intrufolava una cortese proposta da parte di qualcuno dei numerosi faccendieri sempre in agguato intorno al Doctor’s Commons, di esercitare in mio nome (se io volevo dare i passi che mi rimanevano per essere procuratore), e di pagarmi una percentuale sui lucri. Ma respinsi ogni proposta di quel genere, non ignaro che esistevano molti di simili profes-sionisti, e persuaso che la Corte del Doctor’s Commons fosse già abbastanza cattiva, per dover con la mia opera farla peggiore.

Le signorine erano già partite, quando apparve il mio nome sulla porta di Traddles; e il ragazzetto sbarazzino durante tutto il giorno aveva l’aria di non aver mai sentito parlare di Sofia, la quale, chiusa in un retrostanza, aveva il conforto, levando gli occhi dal lavoro, di con-1504

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templare dall’alto una striscetta affumicata di giardino con una pompa in mezzo. Ma io la trovavo sempre lì, lieta e dolce massaia, a canterellare le ballate del Devonshire, quando nessun piede estraneo saliva la scala, e a far stare fermo, con quelle melodie, nel suo gabinetto ufficiale, il ragazzetto sbarazzino.

Mi domandavo, sulle prime, perché trovassi così spesso Sofia occupata a scrivere in una specie di grosso mastro, e perché, quando entravo, lo chiudesse sempre e lo sep-pellisse in fretta nel cassetto. Ma il segreto fu subito svelato. Un giorno, Traddles, rientrato allora dalla Corte sotto la pioggia e il nevischio, trasse una carta dal suo scrittoio, e mi domandò che pensassi di quella scrittura.

– Oh, no, Tommaso! – esclamò Sofia, che scaldava innanzi al fuoco le pantofole del marito.

– Mia cara – rispose Tommaso, con tono di compiacenza – perché no? Che dici di questa scrittura, Copperfield?

– Bellissima! La vera scrittura legale – dissi. – Non ho visto mai una mano così ferma.

– Non sembra una mano di donna, nevvero? – disse Traddles.

– Di donna! – ripetei. – I mattoni e la calce ricordano più da vicino una mano di donna.

Traddles scoppiò in un’allegra risata, e m’informò che 1505

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quella era la scrittura di Sofia; che Sofia aveva dichiarato che egli aveva subito bisogno d’uno scrivano, e che lo scrivano sarebbe stata lei; ch’ella aveva preso quella scrittura da un modello, e che poteva coprirne... non so più quanti fogli in un’ora. Sofia apparve assai confusa per ciò ch’egli mi diceva, e disse che quando Tommaso sarebbe diventato giudice, non sarebbe stato così disposto ad andarlo proclamando in giro. Il che Tommaso negò, dicendo che ne sarebbe stato sempre orgoglioso, in qualunque circostanza.

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