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Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Il Gattopardo

Feltrinelli “Le Comete” 2002

> Digitalizzazione a cura di Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org <

PREMESSA

È noto che Giuseppe Tomasi di Lampedusa non poté licenziare per le stampe le proprie opere. Critico saltuario di letteratura francese e storia negli anni attorno al 1926-27 su Le Opere e i Giorni, un mensile culturale edito a Genova, le circostanze della vita avevano poi interrotto questo primo approccio professionale alle lettere. Rimase il conforto della lettura, la curiosità ed il piacere di smontare pezzo a pezzo, quasi un giocattolo meraviglioso, gli scritti altrui; soprattutto la ricerca, autore per autore ed opera per opera, di una precisa collocazione biografica ed ambientale. Per Lampedusa la letteratura era una sorta di diaristica cifrata, e la diaristica la sola gnoseologia; l’opera d’arte il mezzo attraverso cui una contingente esperienza umana, da individuale ed egoistica, poteva cristallizzarsi in esperienza durevole, valida oltre l’occasionalità delle circostanze.

Il letargo dello scrittore durò fino al convegno svoltasi a San Pellegrino Terme nell’estate del 1954. Vi aveva accompagnato il cugino Lucio Piccolo, che, presentato da Eugenio Montale, veniva ammesso nel salone del Kursaal alla repubblica delle lettere. A distanza ravvicinata quella repubblica non gli apparve composta da semidei. Fare il letterato può equivalere ad essere letterato, e non tutti gli ingegni raccolti a San Pellegrino avevano fatto gran che. L’attività poetica e la fortuna di Lucio Piccolo, un paio di giorni a San Pellegrino fuori dalla sua solitudine, le lezioni pomeridiane che impartiva a Francesco Orlando, anch’egli a quei tempi poeta e narratore, si tradussero in incentivi all’azione. Scriveva di già sul finire del 1954, e, nei trenta mesi che gli restarono da vivere, Lampedusa scrisse quasi ogni giorno, indipendentemente dal successo, quello che la sorte in vita gli negò. Quando morì nel luglio del 1957 aveva in cantiere un secondo romanzo, I gattini ciechi; forse avrebbe aggiunto uno o più capitoli al suo Gattopardo.

Il romanzo apparve nell’autunno del 1958 a cura di Giorgio Bassani, e la correttezza dell’edizione non venne messa in dubbio fino all’anno scorso, quando Carlo Muscetta annunzio di aver riscontrato centinaia di divergenze, anche cospicue, fra il manoscritto ed il testo stampato. Si pose allora un problema concernente tanto la autenticità dell’edizione Bassani, quanto l’autorità delle diverse fonti. La questione era già stata sollevata da Francesco Orlando nel suo 2

Ricordo di Lampedusa (pag. 82). Come rammenta Orlando, esistono tre stesure del Gattopardo; una prima stesura a mano raccolta in più quaderni (1955-1956), una stesura in sei parti battuta a macchina da Orlando e corretta dall’autore (1956), una ricopiatura autografa in otto parti del 1957, recante sul frontespizio: II Gattopardo (completo). Adotto la dizione parti, anziché capitoli, perché così con proprietà si espresse l’autore nell’indice analitico posto a compimento del manoscritto “completo”; ogni sezione del Gattopardo è infatti propriamente una parte, cioè la trattazione da una angolazione diversa, ed in se stessa compiuta, della condizione siciliana.

Fra le tre stesure la prima va senz’altro scartata quale testo definitivo. Essa è superata dalla trasposizione dattiloscritta con cui l’autore cercò di ottenere la pubblicazione del romanzo fin dal maggio 1956. Prima cinque e poi sei parti dattiloscritte furono inoltrate al conte Federici della Mondadori con una lettera di accompagnamento di Lucio Piccolo. Il dattiloscritto, anche se provvisoriamente, riscosse quindi il “placet” dell’autore. È corretto accuratamente e presenta alcune aggiunte autografe numerazione delle pagine e delle parti; apposizione dell’ambientazione temporale con l’indicazione del mese e dell’anno premessa ad ogni parte; non manca la sostituzione di qualche vocabolo. faccio queste osservazioni sulla copia in mio possesso. Essa mi venne restituita dal barone Enrico Merlo, dopo la morte di Lampedusa, unitamente ad una lettera in cui l’autore dava la chiave di alcuni riferimenti precisi (o da lui ritenuti tali) infiltratisi nella trama del romanzo. Merlo, alto funzionario della Corte dei Conti, aveva una visione storica dell’‘annessione” non dissimile da quella espressa nel romanzo, e lo troviamo ricordato accanto all’autore del Gattopardo nella dedica premessa da Virgilio Tifone al suo Storia mafia e costume in Sicilia. Lo storico ha inteso così riconoscere, “agli amici scomparsi del Caffè Mazzara, agli amici che avrebbero compreso, “ l’assistenza ricevuta da questi due siciliani consapevoli, pronti a confortare con la propria esperienza personale i risultati delle sue ricerche.

L’esame del dattiloscritto conferma i miei ricordi circa l’ordine di stesura.

Quando aveva cominciato, Lampedusa mi disse: “saranno 24 ore della vita di mio bisnonno il giorno dello sbarco di Garibaldi”; e, dopo qualche tempo, “non so fare l’ Ulysses.” Avrebbe voluto allora ripiegare sullo schermo di tre tappe di 25 anni: 1860 sbarco di Marsala; 1885 morte del principe (la vera data di morte del bisnonno, non so perché poi anticipata al 1883); 1910 fine di tutto. Il dattiloscritto rivela che “la morte del Principe” era originariamente la parte III, e la 3

“fine di tutto” la IV e conclusiva. La numerazione dei fogli passa infatti da un 63 a chiusura della seconda parte ad un 64, cancellato ma leggibile, in apertura de “la morte del Principe”; e ricordo d’altronde distintamente la lettura di questa anteriormente alle altre due parti ambientate a Donnafugata. Son sicuro anche che I luoghi della mia prima infanzia furono iniziati dopo il Gattopardo, e probabilmente la ricchezza di memorie suscitate dalla ricostruzione mentale di Santa Margherita, l’urgenza di narrare, avranno fatto dilagare la materia oltre gli argini di uno schema precostituito. La correzione della numerazione, tanto delle parti che delle pagine, da “la morte del Principe” in poi, indica l’aggiunta prima della parte III e quindi della IV (quest’ultima è quella che venne spedita a Federici in un secondo tempo), cosicché l’intestazione de “la morte del Principe”, passa da un III baffuto a macchina ad un IV a penna, corretto infine (sempre a penna) in V.

Ed altrettanto dicasi per l’ultima parte, passata da IV a V, e poi a VI.

Le traversie della pubblicazione hanno fornito nuova esca al mito romantico del genio incompreso. Per la verità i lettori della Mondadori e lo stesso Elio Vittorini, che scorse il dattiloscritto prima per la Mondadori e poi per la Einaudi, commisero un madornale errore commerciale piuttosto che critico: essi infatti riconobbero nel Gattopardo il talento di uno scrittore. La risposta personale di Vittorini raggiunse Giuseppe Tomasi a Roma: “come recensione non c’è male, ma pubblicazione niente”, mi disse il giorno prima della sua morte. Se Vittorini era un letterato in grado di riconoscere un avversario degno di considerazione, sosteneva anche di non essere l’uomo fatto per proteggerlo. Eppure non osteggiò il Gattopardo. Segnalò alla Mondadori di tenerlo d’occhio, ma, come mi ha riferito Vittorio Sereni, sfortuna volle che il burocrate di turno, invece di rispondere all’autore con una lettera interlocutoria, restituisse il dattiloscritto al mittente con le generiche frasi d’uso. I 18 mesi intercorsi fra l’invio del dattiloscritto ad Elena Croce e la sua pubblicazione nei “Contemporanei” della Feltrinelli non sarebbero poi stati troppi se la morte non fosse stata più lesta. La tragedia è affatto umana, non letteraria.

Quando nel maggio del 1958 Giorgio Bassani venne a Palermo sulle orme del Gattopardo il dattiloscritto era già stato composto, e così pure il capitolo del ballo, trasmessogli in una copia dattiloscritta fatta redigere dalla principessa vedova.

Bassani aveva il sospetto di avere un testo incompiuto, forse scorretto, e scopo precipuo della visita siciliana era quello di risalire alle fonti. Gli affidai allora il manoscritto del ’57. Egli se ne servi per ritoccare qua e là le bozze delle sette parti 4

già composte, e quale fonte esclusiva per la parte V, le vacanze di padre Pirrone.

La principessa non gli aveva affidato questo intermezzo contadino, in quanto, basandosi su un ripensamento verbale dell’autore, riteneva che dovesse essere espunto dal romanzo. Effettivamente Giuseppe Tomasi non era interamente soddisfatto dell’apologia di un aristocratico fatta da padre Pirrone all’erbuario appisolato: essa introduceva, a suo avviso, una glossa al comportamento di don Fabrizio invece di giustificarlo semplicemente nei fatti, un momentaneo passaggio all’ “esplicito”, su cui l’autore era perplesso, in quanto egli era il primo ad ammettere, secondo la propria estetica e la preferenza per l’implicito, la debolezza del passo. Il Gattopardo dell’edizione Feltrinelli è pertanto condotto sui dattiloscritti, ad eccezione delle vacanze di padre Pirrone; controllato sul manoscritto del ’57 per poche varianti; integrato premettendo i sommari dell’indice analitico alle singole parti; rivisto radicalmente dal curatore nella punteggiatura.

Sorge a questo punto il problema di sapere che cosa i lettori del romanzo hanno letto e quanto genuino esso sia. Ebbene, a conferma di quanto ho già scritto su La Fiera Letteraria nel vivo della polemica sulla autenticità del testo, posso dire che i lettori hanno avuto un testo autentico, rivisto con competenza, privo di sostanziali alterazioni. Le divergenze fra il manoscritto del ’57 e l’edizione a stampa sono sì un migliaio, ma salvo una trentina, irrilevanti, e salvo due casi, di limitata importanza. D’altra parte le divergenze esistono, e giova qui fornire una guida alla loro interpretazione.

Le centinaia di sostituzioni di Don Fabrizio a il Principe, la inversione nell’ordine delle parole, si giustificano sul piano dell’eufonia. Varianti anche più ampie, quali la soppressione od inserzione di un inciso, appartengono sovente alla sovrastruttura narrativa senza pertanto alterare il messaggio, la poetica o la poesia del testo. Ad esempio, la frase di Màlvica: “un singolo sovrano può non essere all’altezza, ma l’idea monarchica rimane lo stesso quella che è”, è completata nel manoscritto da un: “essa è svincolata dalle persone”, spiegazione ovvia di quanto già detto, introdotta pleonasticamente per render più naturale, o forse, trattandosi di Màlvica, più banale il discorso diretto. Non sempre poi queste varianti sono, anche nei limiti di cui s’è detto, letterariamente valide. “La peccatrice è lei!” impreca don Fabrizio nel dattiloscritto, rivolto al portico della Catena; corretto in “La vera peccatrice è lei!”. Correzione che riduce l’incisività di una scansione in anacrusi sul “lei”, convalidata dall’ammicco ad una costruzione 5

dialettale corrente nell’invettiva di ritorsione (“u fissa si’ ttu!”), in una imprecazione meno spontanea e più letteraria. Forse l’autore ebbe un momento timore del vernacolo e delle frasi fatte, fu sopraffatto dall’odio per il color locale.

Le stesse motivazioni adduco per la sostituzione di “lo avevo detto” con “la colpa è tua!” nella scenata notturna di Maria Stella. Quante volte abbiamo riso assieme su questa frase ricorrente delle tante Cassandre che hanno “allietato” le nostre famiglie; ed inoltre la sostituzione è psicologicamente infelice: le nostre donne martiri non accusano direttamente il maschio despota; non mettono in dubbio la legittimità dell’autorità, si lagnano soltanto di non averla potuta guidare.

Sconfino così nell’interpretazione psicologica delle varianti, e, in effetti, vista la mia incapacità a trovare una reale differenza letteraria fra i due testi, colgo nel loro raffronto l’occasione per un ultimo dialogo con Lampedusa, per far rivivere l’uomo attraverso le varianti. Spesso la sola grafia lo tradisce. Anche se la grafia maiuscola o minuscola dei titoli personali non è rigorosamente unificata, e la presente edizione rispetta le incongruenze del manoscritto, la preferenza per l’una o per l’altra forma rispecchia, potrei dire se non altro affettivamente, le gerarchie sociali. Abbiamo: Don Fabrizio, ma don Calogero e don Ciccio; a San Cono il Gesuita è Padre Pirrone, ma altrove padre Pirrone, e così pure, minuscolo, in bocca a Don Fabrizio nella chiusa delle vacanze. I commenti son superflui.

Altrove le varianti precisano l’ansia di realtà, di esporre un messaggio vero,

“magro,” senza passioni diparte. Alcune correzioni ridimensionano infatti numerali e superlativi. Le ceste di limoni occultate da Russo sono 150 anziché 300; i venti sacchetti portati in dote da Angelica contengono 1000 onze ciascuno anziché 10.000. Soprattutto il romanzo dev’essere verosimile: il principe non ricorda più nelle prime righe del libro i Misteri Gloriosi e Dolorosi, ma, correttamente, soltanto i secondi; Tancredi ha vent’anni invece di ventuno (altrimenti che ci starebbe a fare un tutore); Palermo è vicina e non vicinissima, quando il “coupé” si avvia lungo la discesa che costeggia “La Favorita”; padre Pirrone assolve con una formula invece che con una benedizione. Lampedusa non nomina il nome di Dio invano, ed ancora una volta nel correggere si sovviene:

“che tutto finisce quaggiù.” Scelgo a caso nella prima parte.

Anche la lingua dev’essere per quanto possibile scarna, corrente, essenziale: limare il testo alla ricerca dell’’implicito”, del distacco emotivo. Rettifica: ...

continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più sublimati in nei suoi momenti più astratti. Sublimato appartiene al gorgo psicoanalitico, e 6

Lampedusa ha in orrore l’appropriazione giornalistica di una terminologia tecnica, inoltre questo romanzo costruito sulle descrizioni deve convalidare la loro verità nell’esperienza dell’autore. A questo erano serviti I luoghi della mia prima infanzia, mima di affrontare le scorribande per Donnafugata ed il ballo dai Ponteleone. Le rettifiche servono a definire ancor meglio le “cose,” realtà imperturbabili, statiche, che condizionano l’uomo all’immobilità. La Sicilia, l’aristocrazia, i contadini, tè zitelle hanno ciascuno le proprie “cose” e son definiti attraverso di esse. Gli uomini non si differenziano dalle cose e come esse vanno alla deriva nel lento fiume pragmatistico siciliano. Lampedusa è ancor più drastico di Verga. Se in quest’ultimo la vittoria finale della “roba” è scontata, purtuttavia i vinti hanno per un momento creduto di poterla possedere. Per entrambi la “roba” e le “cose” son la totalità del reale. Ma in Verga abbiamo l’inanità di una soluzione mercantile, borghese; in Lampedusa l’annientamento dinastico dell’individuo, l’idolatria del fidecommesso. Le “cose” di Lampedusa non possono esser “maneggiate” meglio di come lo son sempre state, anzi saranno esse a trasformare nel corso di tre generazioni efficienti cafoni in gentiluomini indifesi, o a trascinare il “continentale,” anche un sant’uomo come il cardinale di Palermo, nella palude della disaffezione. Anche le due sole essenziali discordanze fra dattiloscritto e manoscritto sono meticolose descrizioni di oggetti. Soppressa la catalogazione, quasi una didascalia, dello stanzino da bagno a Donnafugata (pag.

71 nota); sostanzialmente ampliata l’elencazione dell’attrezzeria specifica nell’appartamento dei sadici (pag. 147). Nell’un caso ebbe forse ancora una volta timore che il quotidiano, la cronaca di Santa Margherita, potesse invadere lo spazio narrativo; nell’altro volle invece precisare quell’agognata perennità del fidecommesso, e si servi della sua tecnica preferita, quella della contaminazione, sommando ricordi amatissimi e letterari ad oggetti altrettanto amati e perduti: i rotolini di corda di seta, le scatolucce, le bottigliate emergono con la patina preziosa dei pezzi d’antiquariato, ed al tempo stesso ripercorrono l’emozione del fanciullo a caccia di tesori nelle soffitte. È chiaro, ma ben poco importante per il lettore, che Lampedusa non praticava l’invenzione pura, ma, come ho detto, cercava negli scritti di cristallizzare la propria esperienza umana. Tutto ciò è soltanto approssimativamente autobiografia. Per esperienza s intende il particolare rapporto dell’individuo con la realtà circostante, il significato che egli attribuisce al mondo esterno, la sua presa di coscienza, piuttosto che la cronaca di com’egli vi abbia vissuto dentro. Compito del narratore Lampedusa è di riferire 7

sulle cose più che su di se stesso, sua tecnica la contaminazione e sovrapposizione di tempo e di luogo. Non vi è dubbio per me che ogni oggetto del romanzo emerga da associazioni di ricordi strettamente personali, che la loro qualità artistica dipenda da come Lampedusa riesce a giustificare il loro estremo patire in una necessità generale. Non che io possa spiegarli tutti; ma mi basta a volte ricordare l’inflessione emotiva della sua voce nel descrivere un oggetto per ritrovarlo poi nel romanzo. Ad esempio, l’aggiunta del ’57, le scatolucce di argento impudicamente ornate, rinvenute nell’armadio dei sadici, giurerei che rammentano le scene mitologiche scolpite sulle placche di una cornice di ambra, tanto impudiche, secondo le sue parole, lascive e discrete ad un tempo; esemplari amati, ed un giorno posseduti, di una cultura settecentesca dell’implicito, tanto riservata che poteva burlarsi della insensibilità di un suo antenato, il quale se ne era servito per incorniciarvi una madonna.

Direi anzi che la garanzia del risultato artistico consiste nell’autenticità del ricordo originale. Quanto vi è di “oleografico” nel romanzo, secondo la definizione più negativa contenuta nella risposta personale di Vittorini, dipende proprio da una ambientazione storica di seconda mano. La individuerei principalmente in certi discorsi in prima persona di Tancredi. Nel personaggio confluiscono esperienze dirette, alcuni tratti del mio gestire-fisico e il legame affettivo strettosi fra noi negli ultimi anni della sua vita, ma la traccia storica è fornita da alcuni precisi riferimenti genealogici e topografici e da una esauriente conoscenza della diaristica contemporanea; ed in particolare l’esteriorità del comportamento di Tancredi, il suo modo brioso di far la rivoluzione, si rinvengono nei tre mesi nella Vicaria di Palermo nel 1860 di Francesco Brancaccio di Carpino. È questo uno fra i testi meno eroici, della diaristica garibaldina. Brancaccio ed i suoi amici affrontano la rivoluzione del ’60 come i giovanotti di buona famiglia si sentono oggi stuzzicati dalle motociclette da un litro: qualche avventura, poche battaglie, niente disciplina; e, nel caso di Brancaccio, il libro è l’occasione per poter nominare fra i suoi fraterni amici gran parte dei titolati dell’isola, che non sono davvero pochi. Ma inevitabilmente la realtà di Brancaccio è artefatta, quanto quella di Lampedusa è empirica. Frasi come “Ritornerò col tricolore” sono del Tancredi secondo Brancaccio, tanto che l’autore sente a più riprese il bisogno di denunziarne l’enfasi, e la giustifica con l’opportunismo. Tancredi e Angelica, quando agiscono politicamente in prima persona, sono i soli personaggi parzialmente costruiti fuori della cronaca e della memoria, ma in un tenace 8

pragmatista come Lampedusa l’esperienza è insostituibile. Lampedusa era capace di sceneggiare perfettamente gli sciapi, ma veri, appunti di diario di suo nonno, Giuseppe Tomasi (vi si ritrova la giornata incorniciata da rosari e pratiche di devozione, la passione dei cavalli, e, diciamo pure, il grigiore del primogenito Paolo), questi erano esperienza che poteva far vera, la baldanza spadaccino di Brancaccio, no. Quando essa permea il comportamento di Tancredi, la fa seguire da una didascalia. Agli orecchi di questo grande realista il suono è cioccato ed occorre porvi rimedio. Soccorre a questo proposito il raffronto proposto da Moravia fra il Gattopardo e Le confessioni di un italiano, entrambi descrivono affettivamente una civiltà al tramonto; ma Lampedusa fa suonare il campanello di allarme non appena la volontà di descrivere è sostituita dalla volontà di sembrare, mentre Nievo può abbandonarsi alla retorica della patria e dell’amore per interi capitoli. Letterariamente Nievo è un grande cittadino veneto e un cattivo italiano; Lampedusa stava all’erta di non esserlo mai.

A volte ancora Brancaccio fornisce una quinta ambientale, ad esempio La bella Gigugì cantata in Brancaccio dai garibaldini alla presa di Milazzo torna nel Gattopardo intonata dai galoppini continentali durante la campagna per il plebiscito; ma le commozioni ottocentesche possono entrare nel Gattopardo soltanto a patto di esser derise: la canzone descritta da Brancaccio come inno di concordia nazionale è a Donnafugata un altro emblema dell’inconciliabilità fra siciliani ed invasori. Ridotte a schemi le emozioni positive permangono soltanto nelle strutture della forma romanzo, ed interferiscono assai di rado con la descrizione minuziosa di quel regno minerale, fatto di fossili animati ed inanimati, in cui Lampedusa identifica la condizione siciliana. La scoperta di Bassani e il diniego di Vittorini non sono bizze di letterati. Bassani è anche egli un notomista dei vinti; mentre il rifiuto della trascendenza, anche a livello di ideologia, è attivamente sgradevole a chi pensi di poter contribuire al progresso del mondo.

Ho accennato di sfuggita alla difficoltà di accordare una preferenza al testo dattiloscritto o alla ricopiatura manoscritta. Da un lato si può tendere a considerare le stesure successive munite della clausola “annullans, irritans, omne aliud testamentum” (mi permetto, a dispetto dell’autore, di farmi forte sul melodramma, e per di più sul Gianni Schicchi), dall’altro l’opera di Lampedusa mancherà sempre della rifinitura ultima, quella che soltanto lui avrebbe potuto darle. Non che si possa parlare di fonti che hanno bisogno di integrazioni. Esse sono entrambe assai prossime ad un testo definitivo, entrambe leggibili, con un 9

numero esiguo di sviste. Entro questi limiti angusti non mi sentirei di affermare che il manoscritto sia preferibile al dattiloscritto; lo è spesso, non sempre. Ciò premesso sarebbe stato fuori luogo correggere il manoscritto anche limitandosi alle sole consuetudini editoriali. Ho aggiunto soltanto la parola cane, a pag. 49, riga 37, saltata nella fretta della ricopiatura e integrato qualche parola rimasta tronca. Per il resto ho rispettato integralmente la grafia e la punteggiatura, anche lì dove essa è tanto anomala da apparire scorretta. Così a pag. 101 si troverà qualunqui (ma questo plurale è confermato dal dattiloscritto ed è stato corretto da Bassani); qualche d’uno invece di qualcheduno; sé stesso invece di se stesso; la grafia all’italiana “frack” invece di frac. Così pure è stata rispettata la punteggiatura dell’originale, più scarna di quella del dattiloscritto, e già questa era stata estesamente rivista da Bassani. Essa presenta alcune caratteristiche tipiche ed in un certo senso moderne. Lampedusa adopera il punto soltanto quando ha esaurito per intero un tema. Altrimenti preferisce separare i periodi col punto e virgola. Il suo uso della virgola è poi musicale piuttosto che grammaticale; la virgola indica la ripresa di fiato, e non sempre coincide con l’inizio di una coordinata o incidentale, anzi queste ultime sono sovente ignorate dalla punteggiatura. La presente edizione appare quindi con quel minimo di incompiutezza in cui l’autore ha lasciato l’opera sua. Da essa, come ho accennato, si posson trarre varie considerazioni psicologiche sul procedere creativo. Rettificarla avrebbe significato compromettere l’originalità della ricopiatura del 1957, la quale si distingue dalla precedente edizione a stampa più per la fragranza dell’appena incompiuto, che per sostanziali apporti alla qualità e alla definizione dell’opera. Possa questa edizione restituire al lettore l’uomo Lampedusa un pochino più vivo, ed un’opera letteraria meno levigata, senza l’ultima patina editoriale, quella che Bassani le aveva concesso.

Gioacchino Lanza Tomasi

Palermo, settembre 1969

10

PARTE PRIMA

Maggio 1860

Nunc et in bora mortis nostrae. Amen.

La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e mentre durava quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.

Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell’ordine, nel disordine, consueto.

Dalla porta attraverso la quale erano usciti i servi l’alano Bendicò, rattristato dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le donne si alzavano lentamente, e l’oscillante regredire delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo latteo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto un’Andromeda cui la tonaca di Padre Pirrone, attardato in sue orazioni supplementari, impedì per un bei po’ di rivedere l’argenteo Perseo che sorvolando i flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.

Nell’affresco del soffitto si risvegliarono le divinità. Le schiere di Tritoni e di Driadi che dai monti e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si precipitavano verso una trasfigurata Conca d’Oro per esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito colme di tanta esultanza da trascurare le più semplici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Principi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato, Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei minori, sorreggevano di buon grado lo stemma azzurro col Gattopardo. Essi sapevano che per ventitré ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far sberleffi ai cacatoés.

Al di sotto di quell’Olimpo palermitano anche i mortali di casa Salina discendevano in fretta giù dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine e parole in gergo di educandato; da 11

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