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Allora lasciai che la signorina Mills dicesse se fosse saggio o no il consiglio da me dato intorno alle faccende domestiche e allo studio del Libro di cucina.

La signorina Mills, dopo aver meditato un poco, rispose così:

– Signor Copperfield, io con voi sarò sincera. Le sofferenze mentali e le prove da me sopportate sopperiscono in qualche modo alla scarsezza di anni, e io vi parlerò 965

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con la serietà e la sincerità di una Madre abbadessa. No.

Il consiglio non è adatto alla nostra Dora. Ella è un’anima di luce, di trasparenza, di gioia. Dico francamente che se la cosa fosse possibile, sarebbe forse meglio, ma... – e la signorina Mills scosse il capo.

Io mi sentii incoraggiato da quella concessione finale da parte della signorina Mills per chiederle, per amor di Dora, se dato che le si presentasse l’occasione di allet-tarla a qualche esperimento di vita pratica di quel genere, non fosse disposta a incoraggiarla. La signorina Mills rispose di sì con tanta prontezza, che io le chiesi inoltre se ella volesse accettar la custodia del Libro di cucina; e se, potendo indurre Dora ad accettarlo senza paura, fosse disposta a farmi quel segnalato favore. La signorina Mills accettò anche quell’incarico senza troppa fiducia di riuscire.

E Dora ritornò con viso così amabile, che in verità dubitai se fosse lecito turbarla con simili inezie volgari. Ed ella mi voleva tanto bene, ed era così affascinante (specialmente quando faceva star Jip ritto sulle gambe posteriori per dargli un crostino, e quando fingeva di pre-mergli il naso contro la teiera calda per punirlo di non voler star ritto) che mi considerai, per averla impaurita e fatta piangere, come una specie di mostro entrato nel nido d’una fata.

Dopo il te, avemmo un po’ di trattenimento con la chitarra; e Dora cantò quelle ariette francesi che parlavano 966

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della impossibilità di mai lasciar di danzare, tra la ra, tra la ra, e mi sentii un mostro maggiore di prima.

Una sola nube offuscò il nostro piacere, poco prima che mi congedassi. La signorina Mills alluse non so come al giorno appresso, e io mi feci disgraziatamente scappare che allora, costretto a darmi da fare, ero già in piedi alle cinque. Non so dire se Dora pensasse che fossi un sor-vegliante notturno; ma la cosa le fece una grande impressione, ed ella non suonò né cantò più.

Pensava ancora a questo quando le dissi addio; e mi raccomandò, nel suo tono vezzoso di carezza, come ad una bambola, pensai:

– Non t’alzare più alle cinque, cattivo. È una pazzia.

– Amor mio – le dissi – ho tanto da lavorare.

– Ma non lavorare! – disse Dora. – Perché devi lavorare?

Era impossibile, a quel dolce viso sorpreso, dir altrimenti che in tono di scherzo che si deve lavorare per vivere.

– Oh, che ridicolaggine! – esclamò Dora.

– E come potremmo vivere, Dora? – dissi.

– Come? In qualche modo – disse Dora.

Con questo le parve d’aver regolato tutto, e mi diede un tal bacio di trionfo, espressione del suo cuore innocente, che per nulla al mondo avrei voluto disingannarla per la 967

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sua risposta.

Sì, le volevo bene, e continuai a volerle bene, col maggiore trasporto, con la maggiore interezza e completez-za. Ma continuando anche a lavorar con accanimento, e affaccendandomi a tener caldi tutti i ferri che avevo al fuoco, sedevo qualche volta la sera di fronte a mia zia, pensando alla paura che avevo fatta a Dora, e al modo di potermi aprire la via con una custodia di chitarra al collo, attraverso la foresta delle difficoltà, finché non sentivo girarmi il capo.

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XXXVIII.

SCIOGLIMENTO DI SOCIETÀ

Non lasciai raffreddare la mia risoluzione relativa alle discussioni parlamentari. Fu uno dei ferri che misi a scaldare immediatamente, uno di quelli tenuti continuamente al fuoco e martellati con una perseveranza che posso onestamente ammirare. Cominciai a studiare un trattato approvato (che mi costò dieci scellini e sei pence) della nobile e misteriosa arte della stenografia, e m’immersi in un mare di difficoltà che mi portarono, in poche settimane, ai confini della follia. I cambiamenti che potevano farsi nei punti, che in una certa posizione significavano una cosa e in una certa altra qualche altra interamente diversa; le meravigliose stravaganze rappre-sentate dai circoli; le ingiustificabili conseguenze che ri-sultavano da segni come zampe di mosca; i terribili effetti d’una curva in un posto errato; non solo turbavano le mie ore di veglia, ma mi riapparivano in sogno.

Quando mi fui aperta la via a tentoni in mezzo a queste difficoltà, e fui padrone dell’alfabeto, che era per sé solo considerato un tempio egiziano, ecco una processione di nuovi orrori chiamati caratteri arbitrari: i caratteri più dispotici mai conosciuti; i quali pretendevano, per esem-969

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pio, che una cosa come il principio d’una ragnatela significasse speranza, e che uno schizzo di inchiostro volesse dire svantaggioso. Quando mi fui radicato in mente quei geroglifici, m’accorsi che essi avevano cacciato via tutto il resto; allora, cominciando da capo, li dimenticai; mentre li stavo pazientemente raccogliendo un’altra volta, lasciai cadere gli altri frammenti del sistema: insomma era cosa da morire per la disperazione.

Sarebbe stato da morire per la disperazione, se non avessi avuto il pensiero di Dora, che era la meta e la vetta del mio aspro viaggio. Ogni scarabocchio del sistema era una nuova quercia nodosa nella foresta delle difficoltà, e continuai ad abbatterle l’una dopo l’altra con tale vigore che in tre o quattro mesi ero in condizione di fare un esperimento nel Commons, su uno dei nostri famosi oratori. Non dimenticherò mai come il famoso oratore fosse già assai lontano prima di farmi cominciare, e lasciasse la mia povera penna a tremolare intorno alla carta come se avesse avuto le convulsioni.

Così non andava, era chiaro. Io avevo mirato troppo alto, e a quel passo non sarei arrivato mai. Ricorsi a Traddles perché mi consigliasse, ed egli pensò di dettar-mi dei discorsi al passo e con fermatine di tanto in tanto adatte alla mia debolezza. Veramente grato per questo amichevole aiuto, accettai la proposta, e sera per sera, quasi tutte le sere, ebbi per lungo tempo una specie di Parlamento privato in Buckingham Street, dopo che io 970

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tornavo a casa dall’aver lavorato col dottore.

Mi piacerebbe di vedere un Parlamento simile in qualche altra parte! Mia zia e il signor Dick rappresentavano il Governo e l’Opposizione (secondo i casi), e Traddles con l’aiuto dell’Oratore di Enfield o d’un volume di discussioni parlamentari tonava meravigliose invettive contro di loro. Ritto accanto al tavolino, col dito nella pagina per non perdere la riga, e facendo dei gesti con la destra, Traddles, come Pitt, come Fox, Sheridan, Burke, Lord Castlereagh, il visconte Sidmouth e Canning, si accendeva delle più violente collere, e pronunciava le più ardenti denunce contro la dissipazione e la corruzione di mia zia e del signor Dick; mentre io, a qualche distanza, con un taccuino sulle ginocchia, m’affannavo a seguirlo con tutta la mia forza e tutto il mio potere. L’inconsistenza e la volubilità di Traddles non potevano esser superate da nessun vero uomo di Stato. Egli era per qualunque forma di politica, nel lasso d’una settimana, e piantava ogni specie di bandiera su ogni specie di navi-glio. Mia zia, che aveva l’aria d’un incommovibile Cancelliere dello Scacchiere, gettava di tanto in tanto qualche interruzione, come: «Silenzio!» – «No», oppure

«Oh!», quando pareva che il discorso lo richiedesse; ed era per il signor Dick (vero tipo del deputato rurale) il momento di emettere lo stesso grido.. Ma il signor Dick era accusato di tali cose nel corso della sua vita parlamentare, ed era giudicato responsabile di conseguenze così terribili, che a volte finiva con l’averne lo spirito 971

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turbato. Credo che veramente cominciasse col credere di aver commesso in realtà qualche cosa che mirasse alla distruzione della Costituzione inglese e alla rovina del paese.

Molto spesso quelle discussioni si protraevano fino a mezzanotte e fino al consumo totale delle candele. Il risultato di tanto lavoro fu che presto cominciai a tenere il passo con Traddles con una certa facilità, e avrei ottenuto un successo strepitoso, se avessi avuto la minima idea di ciò che dicevano le mie note. Ma, quanto al leggerle dopo che le avevo scritte, era come se avessi copiate le iscrizioni cinesi su un’immensa collezione di casse da tè, o le lettere d’oro di tutte le grandi bottiglie rosse e verdi nelle botteghe dei farmacisti.

Non c’era da far altro che cominciare a rifarmi da capo.

Era triste, ma ricominciai, benché con uggia, a percorrere laboriosamente e metodicamente lo stesso terreno a passo di lumaca; fermandomi a considerare minutamente ogni piccolo segno per strada, da tutti i lati, e facendo gli sforzi più disperati per riconoscere, alla prima occhiata, quei caratteri inafferrabili. Andavo sempre puntualmente all’ufficio; dal dottore anche; e veramente lavoravo come un facchino.

Are sens