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Ma che potevo fare? Non potevo rinnegar Dora e il mio cuore. Quando mi disse che mi dava una settimana di tempo per meditare su ciò che mi aveva detto, come dirgli che non accettavo quella settimana, e, da parte mia, come non sapere che tutte le settimane di tempo non avrebbero modificato in nulla l’amor mio?

– Nel frattempo, parlatene con la signora Trotwood, o con qualche persona che abbia esperienza della vita –

disse il signor Spenlow, accomodandosi con tutte e due le mani la cravatta. – Prendete una settimana di tempo, signor Copperfield.

Mi sottomisi e uscii dalla stanza, cercando di dare al mio viso la migliore possibile espressione di dolorosa e disperata costanza. Le pesanti sopracciglia della signorina Murdstone mi seguirono fino alla porta – dico le sopracciglia e non gli occhi, perché le prime erano nel suo viso molto più importanti. – Ella aveva lo stesso aspetto d’una volta, ed era circa la stessa ora della mattina a Blunderstone nel nostro salotto, tanto che avrei potuto immaginare d’aver come allora recitato male la lezione, e che l’oppressione del mio spirito derivasse ancora da quell’orribile sillabario a incisioni ovali che apparivano in forma di occhiali alla mia fantasia infantile.

Quando mi recai all’ufficio, e andai a sedermi al tavoli-984

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no nel mio cantuccio, mi misi col viso fra le mani, lontano dal vecchio Tiffey e da tutti gli altri, a pensare a quel terremoto avvenuto così improvvisamente, e nell’angoscia che mi opprimeva, arrivai, maledicendo Jip, a un tale stato di sofferenza per Dora, che non so come non mi precipitassi ad afferrare il cappello per correre come un pazzo a Norwood.

L’idea che ella venisse atterrita e fatta piangere, e che io non fossi colà a consolarla, mi opprimeva così angosciosamente che mi spinse a scrivere una lettera insensata al signor Spenlow, supplicandolo di non far pesare su di lei le conseguenze del mio terribile destino. Lo implorai d’aver riguardo alla sua gentile natura – di non troncare un fragile fiore – e gli parlai generalmente, a quel che mi ricordo, come se invece d’essere suo padre egli fosse stato un orco o il drago di Wantley. Suggellai la lettera e gliela misi sul tavolo prima ch’egli ritornasse; e quando venne, lo vidi, per la porta semiaperta della sua stanza, prenderla e mettersi a leggerla.

In tutta la mattinata egli non disse nulla; ma nel pomeriggio, prima d’andarsene, mi avvertì che non era necessario che io mi tormentassi minimamente per la felicità di sua figlia. Le aveva detto semplicemente che tutto era una sciocchezza, e non gliene avrebbe più riparlato.

Credeva, poi, d’essere un padre indulgente (e veramente era così) e potevo risparmiarmi qualunque affanno sul conto di lei.

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– Voi potreste obbligarmi, con un contegno sciocco e ostinato, signor Copperfield – egli osservò – a mandar mia figlia di nuovo lontano, per qualche tempo; ma io ho di voi un’opinione migliore. Spero che fra qualche giorno sarete più ragionevole. Quanto alla signorina Murdstone – poiché io avevo alluso a lei nella mia lettera – rispetto la sua sorveglianza e le sono riconoscente; ma ella ha l’incarico preciso di non far la minima allusione a nulla. Tutto ciò che desidero, signor Copperfield, è che non se ne parli più; tutto ciò che dovete fare, signor Copperfield, si è di dimenticare.

Tutto ciò che dovevo fare! Nel bigliettino che scrissi alla signorina Mills, citai amaramente questa frase. Tutto ciò che dovevo fare, dissi, con triste sarcasmo, era di dimenticare Dora. Era tutto ciò che dovevo fare, ed era nulla. Supplicai la signorina Mills di permettermi d’andarle a parlare quella sera stessa. Se non poteva farsi con l’approvazione e la sanzione del signor Mills, la supplicavo di concedermi una intervista clandestina nel retrocucina, dove si stirava la biancheria. La informai ch’è la mia ragione vacillava sul suo trono, e che solo lei, signorina Mills, poteva evitarne la deposizione. Distrattamente, mi firmai «suo», e non potei fare a meno, rileggendo quella composizione, prima di mandarla per mezzo di un fattorino, d’osservare che era scritta quasi nel medesimo stile di quelle del signor Micawber.

Comunque, la mandai. La sera riparai nella via della si-986

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gnorina Mills, e mi misi a passeggiare su e giù, finché non fui raggiunto dalla cameriera della signorina Mills, che mi condusse furtivamente per una porta di dietro nello stanzino dove si stirava la biancheria. Ho avuto poi ragione di credere che non c’era alcuna ragione al mondo che mi vietasse l’ingresso per la solita porta comune e il ricevimento nel salotto, se la signorina Mills non si fosse compiaciuta del culto del romanzesco e del misterioso.

Nel retrocucina farneticai come un pazzo. Vi ero andato, credo, per rendermi ridicolo, e son perfettamente sicuro che vi riuscii. La signorina Mills aveva ricevuto un frettoloso biglietto di Dora, che le narrava che tutto era scoperto, e invocava: «Oh ti prego, vieni da me, Giulia, vieni, vieni!» Ma la signorina Mills, sospettando che la sua presenza non sarebbe stata gradita alle autorità superiori, non s’era ancora mossa; e noi eravamo tutti e tre circondati dalle arene del deserto di Sahara.

La signorina Mills aveva un meraviglioso serbatoio di parole, e godeva a farlo fluire. Io non potevo non sospettare, benché mischiasse le sue lagrime con le mie, ch’ella provasse un gran piacere delle nostre afflizioni.

Le vezzeggiava, se posso dir così, per trame il maggior profitto. Un profondo abisso, ella osservava, s’era aperto fra me e Dora, e solo l’amore poteva valicarlo col suo arcobaleno. Il destino dell’amore era di soffrire in questo mondo crudele; era stato sempre così. Non importa-987

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va, notò la signorina Mills. I cuori avvolti nelle ragnate-le, se ne sarebbero liberati finalmente, e allora l’amore si sarebbe vendicato.

Questo era scarsamente consolante; ma la signorina Mills, che non soleva incoraggiare fallaci speranze, mi rese più infelice di quel che non fossi, e sentii (e glielo dissi con la più profonda gratitudine) che davvero ella era un’amica. Decidemmo che sarebbe andata da Dora la mattina appresso, e che avrebbe trovato qualche mezzo di assicurarle, o con sguardi o con parole, della mia devozione e della mia infelicità. Ci separammo, oppressi dalla tristezza; e pensai che la signorina Mills si con-siderasse completamente soddisfatta.

Al mio ritorno a casa, confidai tutto a mia zia; e, nonostante tutto ciò ch’ella poté dirmi, andai a letto disperato. Mi levai disperato e uscii disperato. Era una mattina di sabato, e andai difilato al Commons.

Rimasi sorpreso, arrivando in vista della porta del nostro studio, nel veder dei fattorini aggruppati insieme a chiacchierare, e una mezza dozzina di curiosi levar gli sguardi alle finestre chiuse. Affrettai il passo, e facendomi largo fra il crocicchio, domandandomi che avessero, entrai in fretta.

Gl’impiegati c’erano, ma nessuno faceva nulla. Il vecchio Tiffey, la prima volta in vita sua, credo, era seduto sullo sgabello d’un altro, e non aveva neppure appeso il 988

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cappello all’attaccapanni.

– È una gran disgrazia, signor Copperfield – egli disse, nell’istante che mi vide entrare.

– Che? – esclamai. – Che c’è?

– Non sapete? – esclamò Tiffey, con tutti gli altri, cir-condandomi.

– No! – dissi, guardandoli in giro. – Il signor Spenlow –

disse Tiffey.

– Ebbene?

– È morto.

Credetti che lo studio barcollasse, e non io, mentre uno degl’impiegati mi sosteneva. Mi fecero sedere su una sedia, mi sciolsero la cravatta, e mi portarono un po’

d’acqua. Non ho alcuna idea del tempo che ci occorse.

– Morto? – dissi.

– Ieri egli rimase a pranzare in città, e se ne tornò solo con la sua carrozza – disse Tiffey – dopo aver rimandato a casa in diligenza il cocchiere, come faceva qualche volta...

– Ebbene?

– La carrozza arrivò a casa senza di lui. I cavalli si fermarono alla porta della scuderia. Il cocchiere uscì con una lanterna. Nella carrozza non c’era nessuno.

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– I cavalli gli avevano presa la mano?

Are sens