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Charles Dickens David Copperfield

fido a voi, e a un tratto trovo uno scopo e una mèta. Perdo la mèta di vista, vengo qui, e immediatamente mi sento un altro. Le circostanze che m’angosciavano, nell’atto di entrare in questa stanza, non sono mutate; ma in questo breve intervallo, subisco un influsso che mi muta e mi rende migliore. Che cos’è questo? Qual è il vostro segreto, Agnese?

Ella contemplava il fuoco, con la testa china.

– È sempre lo stesso – dissi. – Non ridete se vi dico che è sempre lo stesso, nelle piccole cose come nelle grandi.

I miei affanni un tempo erano ridicoli, e ora son seri; ma tutte le volte che mi sono allontanato dalla mia sorella adottiva...

Agnese levò il volto – un volto celestiale! – e mi diede la mano che io baciai.

– Tutte le volte che voi, Agnese, non m’avete fin dal principio consigliato e dato la vostra approvazione, m’è parso di smarrirmi, e d’intricarmi in una selva di difficoltà. Quando son venuto da voi finalmente (come ho fatto sempre), ho trovato la pace e la felicità. Ritorno a voi oggi, povero pellegrino affaticato, e provo una tale felice sensazione di riposo!

Sentivo così profondamente ciò che dicevo, ed ero così profondamente commosso, che mi mancava la voce; e mi copersi la faccia con la mano, e ruppi in pianto. Io esprimo la verità. Non pensavo né alle contraddizioni né 1009

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alle incoerenze che avvenivano in me, come nel cuore della maggior parte degli uomini; non mi dicevo che avrei potuto condurmi diversamente e meglio di quanto avessi fatto fino allora; né che io avevo avuto torto marcio di chiudere volontariamente l’orecchio al grido della mia coscienza; no, tutto ciò che sapevo si è che accanto a lei provavo un’impressione di pace e di riposo.

Con le sue dolci maniere di sorella; con i suoi occhi radiosi; con la sua tenera voce; e con quella soave compostezza che aveva trasformato in luogo benedetto la casa da lei abitata, ella m’infuse coraggio, e m’indusse a narrarle tutto ciò che era accaduto dopo il nostro ultimo incontro.

– E non ho altro da dirvi, Agnese – dissi, quando le mie confidenze furon terminate – tranne che ora confido in voi.

– Ma non in me dovete confidare, Trotwood – rispose Agnese con un sorriso – ma in qualche altra.

– In Dora? – dissi.

– Ma certo.

– Non v’ho detto, Agnese – dissi, un po’ confuso – che è piuttosto difficile... non vorrei per nulla al mondo dire di non confidare in Dora, perché Dora è l’anima stessa della sincerità e della purità... ma è difficile, non so come esprimerlo, Agnese. Ella è timida, e facilmente si turba e si sgomenta. Qualche momento fa, prima della morte 1010

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di suo padre, credetti mio dovere di dirle... vi racconterò tutto, se avete pazienza. E allora narrai ad Agnese della mia confessione di povertà, del Libro di cucina, dei conti di casa, e di tutto il resto.

– Oh, Trotwood! – ella riprese, con un sorriso. – La vostra storditaggine antica. Voi avreste potuto seriamente sforzarvi di trarvi dalle difficoltà, senza essere così inconsiderato con una ragazza inesperta, affettuosa e timida. Povera Dora!

Non avevo mai udito una così dolce e indulgente gentilezza espressa con la voce con cui ella mi rispondeva.

Era come se la vedessi abbracciare affettuosa e ammirata Dora, e tacita rimproverarmi, con la sua generosa protezione, d’aver inconsideratamente turbato quel cuoricino. Era come se avessi veduto Dora, in tutta la sua affascinante ingenuità, carezzare Agnese, e ringraziarla, e appellarlesi carezzevolmente contro di me, e volermi bene con tutta la sua infantile innocenza.

Come ero riconoscente ad Agnese, e come la ammiravo!

Io le vedevo tutte e due insieme, in uno splendido quadro, come due amiche bene appaiate, l’una aumentando la venustà dell’altra.

– Che dovrei fare allora, Agnese? – chiesi, dopo aver contemplato un po’ il fuoco. – Che mi consigliate di fare?

– Credo – disse Agnese – che il miglior partito da segui-1011

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re sia di scrivere a quelle due signore. Non pensate che qualunque sotterfugio non sarebbe onesto?

– Sì. Se voi lo credete – dissi.

– Io non ho le qualità per essere un buon giudice in simili faccende – rispose Agnese, con modesta esitazione

– ma certo sento... insomma, sento che l’esser segreto e clandestino non è degno di voi.

– Non è degno di me – dissi – per la troppo alta opinione che voi avete di me, Agnese, temo.

– Non è degno di voi, per la sincerità del vostro carattere – ella rispose – e perciò io scriverei a quelle due signore, riferendo loro, con la maggior chiarezza e schiettezza possibili, tutto ciò che è accaduto; e chiedendo il permesso di visitarle di tanto in tanto. Considerando che siete ancor giovine e lavorate per crearvi una posizione, forse sarebbe bene dir loro che siete pronto ad assogget-tarvi volentieri a quelle condizioni che parrà loro giusto d’imporvi. Le supplicherei di non respingere la vostra domanda, senza interrogar Dora; e di discuterla con lei a tempo opportuno. Non mostrerei troppo ardore – disse dolcemente Agnese – né molte esigenze. Confiderei nella mia fedeltà e nella mia tenacia... e in Dora.

– Ma se esse dovessero spaventar di nuovo Dora con le loro parole? – dissi. – E se Dora si mettesse a piangere, e non dovesse dir nulla di me?

– È verosimile? – chiese Agnese, e aveva nel volto 1012

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la sua quieta considerazione.

– Dio la benedica, è più timida d’un uccellino! – dissi. – Forse di sì. O se le due signorine Spenlow (le zitellone di quella specie a volte sono così strane) trovasse-ro sconveniente la mia domanda?

– Non credo, Trotwood – rispose Agnese, fissando i suoi dolci occhi nei miei – che quanto a questo bisogni temer molto. Forse sarebbe meglio considerar soltanto ciò che è giusto di fare, e farlo.

Non avevo più alcun dubbio di sorta. Col cuore più leggero, benché con un profondo senso dell’importanza del mio compito, dedicai tutto il pomeriggio alla composizione della minuta della lettera; e per questo gran compito Agnese mi aveva lasciato il suo tavolino. Ma prima andai a visitare il signor Wickfield e Uriah Heep.

Uriah occupava un nuovo ufficio, ancora odoroso di calce, costrutto nel giardino. Egli mi parve straordinariamente meschino, fra quella gran quantità di libri e di carte. Mi ricevette con la sua solita servilità, e finse di non aver saputo del mio arrivo dal signor Micawber; cosa di cui mi presi la libertà di dubitare. Mi accompagnò nella stanza del signor Wickfield, che era diventata l’ombra di quel che era una volta, spogliata com’era d’un gran numero di arredi passati in servizio del nuovo socio. Il signor Wickfield scambiò con me i suoi saluti, mentre Uriah se ne rimaneva innanzi al fuoco scaldan-1013

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dosi la schiena, e stropicciandosi il mento con la mano ossuta.

– Starai con noi, Trotwood, nel tempo che ti tratter-rai a Canterbury – disse il signor Wickfield, non senza un’occhiata a Uriah come per domandargli la sua approvazione.

– C’è posto per me? – dissi.

– Certo, signorino Copperfield... dovrei dir signore, ma la parola mi viene così spontanea – disse Uriah: – io son pronto a darvi la vostra antica camera, se vi fa piacere.

– No, no – disse il signor Wickfield. – Perché dovete scomodarvi voi? C’è un’altra camera. C’è un’altra camera.

– Oh, ma lo sapete – rispose Uriah con una smorfia: –

ne sarei felicissimo!

Per farla breve, dissi di volere l’altra camera o nessuna; così si stabilì che avrei occupata l’altra, e, congedatomi dai due soci fino all’ora del desinare, tornai da Agnese.

Avevo sperato di trovarla sola. Ma la signora Heep aveva domandato il permesso d’andarsi a sedere, lei e la sua calza, accanto al fuoco in quella stanza, dove non arrivava il vento, come nel salotto e nella sala da pranzo, a rincrudirle i dolori reumatici. Io l’avrei molto volentieri e, senza il minimo rimorso, esposta a tutta la 1014

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