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Charles Dickens David Copperfield

violenza del vento sul pinnacolo più alto della Cattedrale; ma bisognava fare di necessità virtù, e la salutai con tono amichevole.

– Umilmente vi ringrazio, signore – disse la signora Heep, dopo che le ebbi domandato notizia della sua salute; – non c’è male. Non ho di che vantarmi. Se potessi vedere Uriah bene accasato, non desidererei altro, vi assicuro. Come vi pare che stia il mio Uriah, signore?

L’avevo trovato più repugnante del solito, e risposi che non m’era parso in nulla mutato.

– Oh, non credete che sia mutato? – disse la signora Heep. – Modestamente mi dovete permettere di pensarla diversamente da voi. Non vi sembra dimagrato?

– Non più del solito – risposi.

– Veramente! – disse la signora Heep. – Ma voi non lo guardate con l’occhio d’una madre.

L’occhio d’una madre mi parve fosse un malocchio per il resto del mondo, allorché ella lo volse su di me, per quanto potesse essere tenero per lui; perché credo che suo figlio e lei si volessero un gran bene. Quell’occhio mi lasciò da parte e si diresse ad Agnese.

– Non vedete che si macera e si consuma, signorina Wickfield? – chiese la signora Heep.

– No – disse Agnese, continuando tranquillamente a lavorare. – Voi siete sempre inquieta sulla sua salute, 1015

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ma egli sta benissimo.

La signora Heep trasse poderosamente il fiato per le narici, e riprese il suo lavoro a maglia.

Ella non lasciò né il suo lavoro, né noi per un sol momento. Ero arrivato presto la mattina, e prima d’altre tre o quattro ore non si sarebbe desinato; ma ella non si moveva, continuando ad agitare i ferri con la monotonia con la quale un orologio a polvere versa la sua sabbia. Era seduta in un cantuccio del caminetto; io sedevo al tavolinetto di fronte; Agnese era dall’altro lato, non lungi da me. Tutte le volte che levavo gli occhi, mentre componevo lentamente la mia epistola, vedevo innanzi a me il volto pensoso d’Agnese, che mi faceva coraggio con la sua dolce e angelica rassegnazione; ma sentivo nello stesso tempo il malocchio che mi fissava, per dirigersi poi su Agnese, e ritornare su di me, e cader furtivamente sul lavoro a maglia. Che lavoro a maglia fosse, non so, non essendo io esperto di quell’arte; ma m’aveva l’aria d’una rete; e mentre lavorava ai suoi ferri, la signora Heep appariva nel bagliore del focolare in sembianza di una trista maga, trattenuta per il momento dal radioso angelo sedutole di contro, ma lì lì pronta a gettar la sua rete.

A desinare continuò la sua sorveglianza con lo stesso rigore. Dopo desinare, fu la volta di suo figlio; e quando rimanemmo soli io e il signor Wickfield, egli si mise a osservarmi con la coda dell’occhio, contorcendosi nella 1016

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più odiosa maniera. Nel salotto trovammo la madre, intenta al suo lavoro e alla sua sorveglianza. Quando Agnese, cantò e sonò, la madre se ne stette accanto al pianoforte. Una volta ella chiese ad Agnese di cantare una ballata, per la quale Uriah andava matto (invece Uriah in tutto quel tempo sbadigliò sulla poltrona); poi ella lo guardava e riferiva ad Agnese ch’egli andava in visibilio per la musica. Quasi non apriva mai la bocca senza pronunziare il nome del figlio. Mi parve evidente che quella fosse la consegna avuta.

Si andò innanzi così fino all’ora d’andare a letto. Veder la madre e il figlio volteggiare, come due grandi pipi-strelli, in tutta la casa, e abbuiarla con le loro repugnanti forme, mi diede un tale malessere che sarei rimasto da basso, con tutto il lavoro a maglia, piuttosto che andare a letto. Chiusi appena gli occhi. Il giorno appresso il lavoro a maglia e la sorveglianza ricominciarono per durare tutto il giorno.

Non ebbi l’agio di parlare ad Agnese neppure per dieci minuti: fu bazza se potei mostrarle la lettera. Le proposi di uscire con me; ma la signora Heep ripeté tante volte che era sofferente, che Agnese si sentì caritatevolmente in dovere rimanere per farle compagnia. Verso sera, uscii solo, riflettendo su ciò che dovessi fare, e se fosse giusto tacere ancora con Agnese di ciò che Uriah Heep mi aveva detto in Londra; perché questo cominciava a turbarmi molto.

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Non ero arrivato ancora molto lontano e non avevo, per-correndo la strada di Ramsgate, dove era piacevole passeggiare, lasciato la città, quando nell’ombra di dietro sentii una voce chiamarmi. Al passo sregolato e al soprabito svolazzante era impossibile non dire di chi fosse. Mi fermai, e fui raggiunto da Uriah Heep.

– Bene? – dissi.

– Come camminate presto! – egli disse – Le mie gambe sono piuttosto lunghe, ma ce n’è voluto per raggiungervi!

– Dove andate? – dissi.

– Vengo con voi, signorino Copperfield, se mi volete ac-cordare il piacere di passeggiare con una vecchia conoscenza. – Così dicendo, con una scossa di tutto il corpo che poteva esser presa come un gesto di propiziazione o di derisione, si mise a camminare accanto a me.

– Uriah! – dissi, più cortesemente che potei, dopo un istante di silenzio.

– Signorino Copperfield! – disse Uriah.

– A dirvi la verità (vi prego di non offendervene) sono uscito per passeggiare solo, perché sono stanco d’essere stato tanto tempo in compagnia.

Mi diede un’occhiata obliqua, e mi disse con la più orribile smorfia:

– Voi intendete la mamma.

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– Sì, proprio – dissi.

– Ah! Ma voi sapete che noi siamo umilissimi – egli rispose. – E avendo tanta coscienza della nostra umiltà, abbiamo il dovere di badare a non farci cacciare contro il muro da quelli che non lo sono. In amore ogni strata-gemma è ammesso, signore.

Levando le mani sino al mento, se lo grattò pianamente, e pianamente sogghignò; e rassomigliava, mi parve, per quanto è umanamente possibile, a un babbuino maligno.

– Vedete – egli disse, continuando a carezzarsi il mento e scotendo la testa – voi siete un rivale pericoloso, signorino Copperfield. E lo siete sempre stato, con-fessatelo.

– Ah, è per questo che montate la guardia intorno alla signorina Wickfield, e le togliete la libertà in casa propria? – dissi.

– Oh, signorino Copperfield! Le vostre sono parole dure! – egli rispose.

– Chiamatele come vi pare e piace – dissi. – Voi comprendete ciò che intendo, Uriah.

– Oh, no! Bisogna che vi spieghiate – egli disse. – Veramente non vi capisco.

– V’immaginate, forse – dissi cercando, per riguardo d’Agnese, di mostrarmi urbano e calmo – che io consi-1019

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deri la signorina Wickfield diversamente da come considererei una sorella?

– Signorino Copperfield – egli rispose – voi comprenderete che non ho il dovere di rispondere a questa domanda. Non lo potete pretendere. Forse sì e forse no.

Non avevo mai visto nulla di simile alla ignobile malizia di quella faccia e di quegli occhi nudi senza l’ombra d’un ciglio.

– Allora, su! – dissi. – Per l’amore della signorina Wickfield...

– La mia Agnese! – egli esclamò con una morbosa contorsione. – Volete esser così buono da chiamarla Agnese, signorino Copperfield?

– Per l’amore di Agnese Wickfield... il Cielo la benedica!

– Vi son grato della vostra benedizione! – egli interruppe.

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